Da Penelope, che si mostrava ai Proci
solo coperta dal velo, alle mogli islamiche, è tutta una storia? Il velo, è la
tesi dei due libri, unisce Oriente e Occidente e non lo divide: nasce pagano,
diventa cristiano, e sarà solo più tardi simbolo dell’islam. Ma è una storia
che non spiega nulla, e non storicizza nemmeno: il velo non è un simbolo –
certo non un estetismo (lo è, ma allora siamo in altro mondo, della moda) – ma
un segno politico e di potere, una legge.
“Un costume millenario,” afferma Muzzarelli,
docente di Storia medievale e di Storia del costume e la moda a Bologna, “attestato
dalla Bibbia e dalla statue dell’antica Grecia, dai Padri della chiesa, dalle
normative medievali, da innumerevoli testimonianze artistiche e letterarie. Il
capo coperto era prerogativa delle donne sposate, era la divisa delle
religiose, così come ogni vedova era tenuta a portare il velo del lutto. Segno
di verecondia e modestia” – e di lusso, e civetteria. E prima che nel “Corano”,
si premura di precisare, il velo è prescritto alle sposate dalla prima Lettera
ai Corinzi, in segno di rispetto all’autorità dell’uomo, da cui dipendono.
Bene, cioè male – le donne hanno molto
da domandarsi sulla santità di san Paolo.
Lo stesso percorso segue Giulia
Galeotti, una storica che fa la giornalista, responsabile delle pagine
culturali dell’“Osservatore Romano”, e dunque dovrebbe sapere di che si parla.
Anche lei cita passi e versetti della Bibbia, del Corano, di san Paolo, dei
padri della Chiesa, e spazia dalla donna dell’ebraismo a Maria e al burqa
afghano. Tutto vero, ma non è la stessa
cosa.
Galeotti fa il caso soprattutto delle
suore, di cui vuole riproporre l’integrità e la funzione sociale, cui l’uso del
velo, segno di modestia, serve da tutore. Il velo documenta in una prima fonte
nel secolo XIII a.C., come segno di distinzione concesso alle nobili e proibito
alle donne comuni. L’uso di coprirsi il capo “vale da epoca immemorabile per la
donna di una vasta area geografica, che va dall’India al Mediterraneo”. Bene –
ma c’è aria di “arianesimo”? Anzi, di più: la “lettura riduttiva” che se ne dà
non tiene conto dell’importanza che il velo ha “in relazione alla vita delle
credenti, siano esse ebree, cristiane o mussulmane”. Ma di che stiamo parlando?
Il velo è molte cose. C’è naturalmente
il velo nero della saudite e delle sciite, che copre tutto il corpo, e quello
invece di bellezza: velette, capellini, trasparenze. Fino a Hermès
naturalmente, 1936, e poi Pucci, Gucci, Dior. Si sono fatte, quando usavano,
leggi suntuarie apposite per proibire l’uso eccessivo di veli e velette. Ma “il” velo prescinde dalla foggia: è un
vincolo, di subalternità.
Il “Corano”, ricorda Muzzarelli, voleva
il velo per proteggere la donna: “O Profeta! Dì alle tue spose, alle tue figlie
e alle donne dei credenti che si coprano con i veli. Sarà il modo migliore per distinguerle
dalle altre e per evitare che subiscano offese”. Del tutto innocuo, e semmai
paterno. La sharia è diverso, l’uso
perfino peggio – tormentoso, femminicida. Due opere a fin di bene che fanno
male.
Maria Giuseppina Muzzarelli, A capo coperto, Il Mulino, pp. 206 € 16
Giulia Galeotti, Il velo. Significati di un copricapo femminile, Edb, pp. 32 € 16,50
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