mercoledì 20 luglio 2016

Il velo non ci unisce

Da Penelope, che si mostrava ai Proci solo coperta dal velo, alle mogli islamiche, è tutta una storia? Il velo, è la tesi dei due libri, unisce Oriente e Occidente e non lo divide: nasce pagano, diventa cristiano, e sarà solo più tardi simbolo dell’islam. Ma è una storia che non spiega nulla, e non storicizza nemmeno: il velo non è un simbolo – certo non un estetismo (lo è, ma allora siamo in altro mondo, della moda) – ma un segno politico e di potere, una legge.
“Un costume millenario,” afferma Muzzarelli, docente di Storia medievale e di Storia del costume e la moda a Bologna, “attestato dalla Bibbia e dalla statue dell’antica Grecia, dai Padri della chiesa, dalle normative medievali, da innumerevoli testimonianze artistiche e letterarie. Il capo coperto era prerogativa delle donne sposate, era la divisa delle religiose, così come ogni vedova era tenuta a portare il velo del lutto. Segno di verecondia e modestia” – e di lusso, e civetteria. E prima che nel “Corano”, si premura di precisare, il velo è prescritto alle sposate dalla prima Lettera ai Corinzi, in segno di rispetto all’autorità dell’uomo, da cui dipendono. Bene, cioè male – le donne hanno  molto da domandarsi sulla santità di san Paolo.
Lo stesso percorso segue Giulia Galeotti, una storica che fa la giornalista, responsabile delle pagine culturali dell’“Osservatore Romano”, e dunque dovrebbe sapere di che si parla. Anche lei cita passi e versetti della Bibbia, del Corano, di san Paolo, dei padri della Chiesa, e spazia dalla donna dell’ebraismo a Maria e al burqa afghano. Tutto vero, ma non  è la stessa cosa.
Galeotti fa il caso soprattutto delle suore, di cui vuole riproporre l’integrità e la funzione sociale, cui l’uso del velo, segno di modestia, serve da tutore. Il velo documenta in una prima fonte nel secolo XIII a.C., come segno di distinzione concesso alle nobili e proibito alle donne comuni. L’uso di coprirsi il capo “vale da epoca immemorabile per la donna di una vasta area geografica, che va dall’India al Mediterraneo”. Bene – ma c’è aria di “arianesimo”? Anzi, di più: la “lettura riduttiva” che se ne dà non tiene conto dell’importanza che il velo ha “in relazione alla vita delle credenti, siano esse ebree, cristiane o mussulmane”. Ma di che stiamo parlando?
Il velo è molte cose. C’è naturalmente il velo nero della saudite e delle sciite, che copre tutto il corpo, e quello invece di bellezza: velette, capellini, trasparenze. Fino a Hermès naturalmente, 1936, e poi Pucci, Gucci, Dior. Si sono fatte, quando usavano, leggi suntuarie apposite per proibire l’uso eccessivo di veli e velette.  Ma “il” velo prescinde dalla foggia: è un vincolo, di subalternità.
Il “Corano”, ricorda Muzzarelli, voleva il velo per proteggere la donna: “O Profeta! Dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti che si coprano con i veli. Sarà il modo migliore per distinguerle dalle altre e per evitare che subiscano offese”. Del tutto innocuo, e semmai paterno. La sharia è diverso, l’uso perfino peggio – tormentoso, femminicida. Due opere a fin di bene che fanno male.
Maria Giuseppina Muzzarelli, A capo coperto, Il Mulino, pp. 206 € 16

Giulia Galeotti, Il velo. Significati di un copricapo femminile, Edb, pp. 32 € 16,50

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