letterautore
Céline – Borges,
“Finzioni”, o il suo alter ego Pierre Ménard per lui, opina che sarebbe
stimolante leggere il “De Imitazione Christi” come se fosse stato scritto da
Céline. Ma è solo un’espressione della sua irreligiosità, un’irrisione – Borges
è cieco e sordo al religioso. O uno scherzo: Borges voleva dire il contrario,
che un autore non può essere un altro?
Umberto Eco, che all’epoca era per il libro del Lettore e non dell’Autore, dirà successivamente, deluso
dalla “sovrainterpretazione”, che ci ha provato, ha seguito il consiglio, ma ci
ha trovato poco o niente Céline (“Interpretazione e sovrainterpretazione”, p.
79): “Ho trovato delle frasi che
avrebbero potuto essere di Céline”, ma “poche” – e quella che cita non è
céliniana: “La grazia ama le cose semplici e di basso livello, non è disgustata
da quelle dure e spinose, e ama gli abiti sordidi”, dov’è il ferrigno e il
diabolico?
Dante – È l’autore prediletto dell’ermetismo. Dei
Fedeli d’amore, Rosacroce, Massoni, Templari e ogni altro. Le esercitazioni in
materia sono dozzine. Dozzinali: senza appigli, e con molti impossibili post hoc ergo propter hoc. Ma perché è
l’autore forse più impegnato, o più sentitamente, più di Milton e altri, nella
poesia del religioso. E l’ermetismo è - prima che esperienza poetica, di
tecnica - la deviazione dal religioso, un Ersatz.
Eco ha una spiegazione precisa di questa assunzione di Dante nell’ermetismo
(“Interpretazione e sovrainterpretazione”, p.68): “”Qualsiasi organizzazione
che pretenda di discendere da una tradizione precedente sceglie come emblemi
quelli della tradizione cui si rifà”. L’esoterismo-ermetismo si applica al
cristianesimo come Mussolini, che aveva scelto “di utlizzare come segno i fasci
littori dato che desiderava considerarsi erede dell’antica Roma”.
U. Eco –I suoi romanzi la romanziera
e filologa americana Christine Brooke-Rose dice”romanzi a palinsesto”. Riscritture
di vecchie scritture. I romanzi “storici” o di erudizione lo comportano, ma è
vero, Eco lo fa di programma – non ambisce al romanzo storico, ma a chiave.
È un adepto egli stesso degli “Adepti del Velame” che irride? Glielo rinfaccia
garbato un suo lettore e critico americano. Jonathan Culler. In effetti, Eco è
nei suoi romanzi praticamente ossessionato dal complotto, in tutte le forme,
storico, filosofico, esoterico, spiritistico, letterario, culturale, mentale. Delle
forze oscure della reazione in agguato, come una volta si diceva. Critica violentemente,
a partire da “Il pendolo di Foucault”, 1988, che ne è l’apoteosi, la mentalità
del segreto e del complotto universali, ma non se ne libera.
Una spia è la sua revisione del dibattito con Culler, Brooke-Rose e
Rorty sulla sua denuncia della “sovrainterpretazione” ( tutto è
interpretazione): Eco la riduce a “una replica di mosse da tempo familiari,
quasi uno stadio ulteriore nella tortuosa storia dell’ermetismo e dello
gnosticismo”. Ma in questa presa d’atto del dibattito, nella presa d’atto
sospettosa, conferma il suo vizio o propensione verso il “velame”, l’occulto,
il senso riposto di ogni cosa – di cui peraltro giustamente dice che alla fine
è il vuoto: “Il segreto definitivo dell’iniziazione ermetica è che tutto è
segreto. Ne deriva che il segreto ermetico deve essere vuoto”, chi pretende di
rivelarlo non essendo un iniziato, giusto uno che parla a vanvera.
Uno sbrogliamento dello ghiommero potrebbe essere che Eco, che è molte
cose ma soprattutto si vuole studioso e scienziato, aborre dai complotti e dai
segreti, ma ci si diverte, se non ci sguazza dentro. E cos’altro è il segreto
del complotto, se non un divertimento,
magari tra compari..
’
Fantascienza – Ha la
credibilità dell’incredibile. Deve averla, altrimenti degrada a mera fantasia -
sia pure malata, terminale: l’eccesso non la purifica. C’è una credibilità
dell’incredibile, possibile, non contraddittori. Degli stessi ingredienti del
credibile – e della fede o ragione..
Grande
bellezza – È la
morte, il cadavere non decomposto, dei santi – anche laici, bisognerebbe aggiungere,
mummificati, un tempo al Cremlino, oggi a Pyongyang e forse in Cina (quei
“vertici” - ganci? - politici senza tempo dalle manine di biscuit, che
quando applaudono non si toccano, capelli di seppia e facce di cera, senza età,
che però artigliano saldi i fili).
La “grande bellezza” di Roma, che gli è valsa l’Oscar e ogni altro premio, Sorrentino
aveva già spiegato in uno dei suoi racconti (“Antonello Venditti”, in “Tony
Pagoda e i suoi amici”) come quella di “una straordinaria città morta”.
Straordinaria per l’integrità: “È l’integrità del cadavere il grande miracolo
estetico e mistico di Roma. Essa non conosce il degrado del corpo”. E poi: “Per
sentieri vivi, non bisogna forse ossessivamente relazionarsi con la morte?” O
anche: “Una città che è sempre una novità per la semplice ragione che la morte
è sempre una novità”.
Interpretazione
– O “il libro è
del Lettore”. Eco, che ha esordito
con “Opera aperta”, 1962, e con Peirce, e di molte disparate “letture” si è
dilettato di Joyce, con “l’interpretazione illimitata”, chiude con “I limiti
dell’interpretazioone”, 1992, e con l’ancora più restrittivo “Interpretazione e
sovrainterpretazione” due anni dopo. Ma lui è il narratore del “trasformismo”,
dopo esserne stato l’artefice, nel senso di fregoli, uno che si tramuta.
Moravia
– Nel complesso,
ripensato oggi e in parte riletto, si circoscrive narratore di una borghesia
che non c’è, non è sentita – c’è al Parioli-Flaminio a Roma. Di una visione
(ideologia) piuttosto europea della borghesia, di cui Proust e Freud sono state
massime espressioni, senza riscontri reali. Un mediatore culturale. Come un
odierno mediatore culturale di tribù sparse dell’Africa.
Shakespeare
– È un
masochista geloso – roso dall’invidia, di cui si fa colpa? Secondo l’avventurosa
lettura di René Girard, “Shakespeare. Il Teatro dell’invidia”, sì. Ma è questa una
battuta di Joyce. Che nell’“Ulisse” fa dire a Stephen Dedalus, alla National
Library di Dublino: “Il suo intelletto infallibile è uno Iago folle di gelosia
che desidera senza sosta la sofferenza di quel moro che è in lui”. Al che nel
romanzo gli viene obiettato: “Ma lei, poi, ci crede alla sua teoria?” “«No», disse prontamente Stephen”.
Sherlock Holmes – Si piace
e piace – piace perché si piace. Sembra un disperato, cioè dovrebbe esserlo:
solo e solitario, per unica compagnia avendo un dottore pedante e senza
fantasia, cocainomane e oppiomane, senza rendita e senza reddito, pieno di
complessi e depresso più che non. E invece è l’uomo più sicuro di sé che
esista, a leggere.
letterautore@antiit.eu
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