martedì 26 luglio 2016

Letture - 267

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Céline – Borges, “Finzioni”, o il suo alter ego Pierre Ménard per lui, opina che sarebbe stimolante leggere il “De Imitazione Christi” come se fosse stato scritto da Céline. Ma è solo un’espressione della sua irreligiosità, un’irrisione – Borges è cieco e sordo al religioso. O uno scherzo: Borges voleva dire il contrario, che un autore non può essere un altro?
Umberto Eco, che all’epoca era per il libro del Lettore e non  dell’Autore, dirà successivamente, deluso dalla “sovrainterpretazione”, che ci ha provato, ha seguito il consiglio, ma ci ha trovato poco o niente Céline (“Interpretazione e sovrainterpretazione”, p. 79): “Ho trovato delle frasi  che avrebbero potuto essere di Céline”, ma “poche” – e quella che cita non è céliniana: “La grazia ama le cose semplici e di basso livello, non è disgustata da quelle dure e spinose, e ama gli abiti sordidi”, dov’è il ferrigno e il diabolico?

Dante –  È l’autore prediletto dell’ermetismo. Dei Fedeli d’amore, Rosacroce, Massoni, Templari e ogni altro. Le esercitazioni in materia sono dozzine. Dozzinali: senza appigli, e con molti impossibili post hoc ergo propter hoc. Ma perché è l’autore forse più impegnato, o più sentitamente, più di Milton e altri, nella poesia del religioso. E l’ermetismo è - prima che esperienza poetica, di tecnica - la deviazione dal religioso, un Ersatz.
Eco ha una spiegazione precisa di questa assunzione di Dante nell’ermetismo (“Interpretazione e sovrainterpretazione”, p.68): “”Qualsiasi organizzazione che pretenda di discendere da una tradizione precedente sceglie come emblemi quelli della tradizione cui si rifà”. L’esoterismo-ermetismo si applica al cristianesimo come Mussolini, che aveva scelto “di utlizzare come segno i fasci littori dato che desiderava considerarsi erede dell’antica Roma”.

U. Eco –I suoi romanzi la romanziera e filologa americana Christine Brooke-Rose dice”romanzi a palinsesto”. Riscritture di vecchie scritture. I romanzi “storici” o di erudizione lo comportano, ma è vero, Eco lo fa di programma – non ambisce al romanzo storico, ma a chiave.

È un adepto egli stesso degli “Adepti del Velame” che irride? Glielo rinfaccia garbato un suo lettore e critico americano. Jonathan Culler. In effetti, Eco è nei suoi romanzi praticamente ossessionato dal complotto, in tutte le forme, storico, filosofico, esoterico, spiritistico, letterario, culturale, mentale. Delle forze oscure della reazione in agguato, come una volta si diceva. Critica violentemente, a partire da “Il pendolo di Foucault”, 1988, che ne è l’apoteosi, la mentalità del segreto e del complotto universali, ma non se ne libera.
Una spia è la sua revisione del dibattito con Culler, Brooke-Rose e Rorty sulla sua denuncia della “sovrainterpretazione” ( tutto è interpretazione): Eco la riduce a “una replica di mosse da tempo familiari, quasi uno stadio ulteriore nella tortuosa storia dell’ermetismo e dello gnosticismo”. Ma in questa presa d’atto del dibattito, nella presa d’atto sospettosa, conferma il suo vizio o propensione verso il “velame”, l’occulto, il senso riposto di ogni cosa – di cui peraltro giustamente dice che alla fine è il vuoto: “Il segreto definitivo dell’iniziazione ermetica è che tutto è segreto. Ne deriva che il segreto ermetico deve essere vuoto”, chi pretende di rivelarlo non essendo un iniziato, giusto uno che parla a vanvera.  
Uno sbrogliamento dello ghiommero potrebbe essere che Eco, che è molte cose ma soprattutto si vuole studioso e scienziato, aborre dai complotti e dai segreti, ma ci si diverte, se non ci sguazza dentro. E cos’altro è il segreto del complotto, se non  un divertimento, magari tra compari..
Fantascienza – Ha la credibilità dell’incredibile. Deve averla, altrimenti degrada a mera fantasia - sia pure malata, terminale: l’eccesso non la purifica. C’è una credibilità dell’incredibile, possibile, non contraddittori. Degli stessi ingredienti del credibile – e della fede o ragione..

Grande bellezza – È la morte, il cadavere non decomposto, dei santi – anche laici, bisognerebbe aggiungere, mummificati, un tempo al Cremlino, oggi a Pyongyang e forse in Cina (quei “vertici” - ganci? - politici senza tempo dalle manine di biscuit, che quando applaudono non si toccano, capelli di seppia e facce di cera, senza età, che però artigliano saldi i fili). La “grande bellezza” di Roma, che gli è valsa l’Oscar e ogni altro premio, Sorrentino aveva già spiegato in uno dei suoi racconti (“Antonello Venditti”, in “Tony Pagoda e i suoi amici”) come quella di “una straordinaria città morta”. Straordinaria per l’integrità: “È l’integrità del cadavere il grande miracolo estetico e mistico di Roma. Essa non conosce il degrado del corpo”. E poi: “Per sentieri vivi, non bisogna forse ossessivamente relazionarsi con la morte?” O anche: “Una città che è sempre una novità per la semplice ragione che la morte è sempre una novità”.

Interpretazione – O “il libro è del Lettore”. Eco, che ha esordito con “Opera aperta”, 1962, e con Peirce, e di molte disparate “letture” si è dilettato di Joyce, con “l’interpretazione illimitata”, chiude con “I limiti dell’interpretazioone”, 1992, e con l’ancora più restrittivo “Interpretazione e sovrainterpretazione” due anni dopo. Ma lui è il narratore del “trasformismo”, dopo esserne stato l’artefice, nel senso di fregoli, uno che si tramuta.

Moravia – Nel complesso, ripensato oggi e in parte riletto, si circoscrive narratore di una borghesia che non c’è, non è sentita – c’è al Parioli-Flaminio a Roma. Di una visione (ideologia) piuttosto europea della borghesia, di cui Proust e Freud sono state massime espressioni, senza riscontri reali. Un mediatore culturale. Come un odierno mediatore culturale di tribù sparse dell’Africa.

Shakespeare – È un masochista geloso – roso dall’invidia, di cui si fa colpa? Secondo l’avventurosa lettura di René Girard, “Shakespeare. Il Teatro dell’invidia”, sì. Ma è questa una battuta di Joyce. Che nell’“Ulisse” fa dire a Stephen Dedalus, alla National Library di Dublino: “Il suo intelletto infallibile è uno Iago folle di gelosia che desidera senza sosta la sofferenza di quel moro che è in lui”. Al che nel romanzo gli viene obiettato: “Ma lei, poi, ci crede alla sua teoria?”  “«No», disse prontamente Stephen”.  

Sherlock Holmes – Si piace e piace – piace perché si piace. Sembra un disperato, cioè dovrebbe esserlo: solo e solitario, per unica compagnia avendo un dottore pedante e senza fantasia, cocainomane e oppiomane, senza rendita e senza reddito, pieno di complessi e depresso più che non. E invece è l’uomo più sicuro di sé che esista, a leggere.

letterautore@antiit.eu

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