È la storia di un
colpo audace, al protettissimo museo Topkapi di Istanbul, e di un temuto golpe
o atto terroristico. Che una banda di criminali e la polizia turca conducono in
parallelo. È il romanzo della spia suo malgrado, che era e resta povero, anche
di spirito. Ribattezzato in traduzione col titolo del film famoso del 1964 di
Jules Dassin. Ma il film è brillante, il romanzo triste.
È la traduzione di
“The Light of the Day”. Un borsaiolo egiziano, che si finge inglese e opera sui
turisti che arrivano ad Atene, viene ingaggiato, da una sua vittima che l’ha
scoperto e lo ricatta, per il at per il colpo del secolo al muso Topkapi di
Istanbul. Ma lo ricatta anche la polizia, con la quale non potrà non
collaborare, che per altri motivi segue il gruppo di cui è entrato a fare
parte. Il film si ricorda più agile e caratterizzato dell’originale di Amber.
Ma qui è la radice di tutta la letteratura spionistica del Grande Freddo, o
della guerra fredda: un mondo dolente e rassegnato, più che avventuroso.
Anticipatore, anche se di pochi mesi, del più famoso Smiley, “la spia che venne
dal freddo” di Le Carrè, e dei cloni di Smiley.
Il vero plot
naturalmente non è il furto del Topkapi. Ovvero sì, ma intrecciato con altri
più avventurosi. La chiave è che nessuno è quello che appare. Eccetto lo
spione, che per definizione non lo è.
Curiosamente, oggi
come sessant’Anni fa, la Turchia postbellica è tra il qua e il là: dà l’idea di
essere familiare e insieme remota e estranea. Per un fondo di durezza sugli
splendori del Bosforo, e per una concezione al fondo di diversità.
Eric Ambler, Topkapi,
Adelphi, pp. 241 € 18
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