“Addio
Berlino. Sventrata, piegata, annientata, punita. Addio, ricordi di incubi, di
incredibili attese, di notti insonni. Fame, sete, sporcizia, buio, terrore,
puzzo, cimici, solitudine”. Alla fine, dopo i terribili anni della guerra,
rintanati nella cantina con gli altri coinquilini, Helga, la matrigna e il
fratellino lasciano Berlino, per l’Austria del padre. In lacrime: “Lascio una
città che mi ha rifiutato tutto”, constata la scrittrice, e si chiede: “Una
città che mi ha dato solo dolore, privazion, terrore, solitudine, tristezza,
angoscia e disperazione. Perché piango?”
Helga
Schneider ha avuto il tempo di scrivere “I miei vent’anni oltre «Il rogo di
Berlino»”, ma questo lascia senza fiato. Lei stessa, a metà narrazione, se lo
dice: “Il mondo non ha più nulla da offrirmi perché mi ha già preso tutto: l’infanzia,
mia madre, mio padre, la nonna, mio fratello. Cosa mi resta? La fame, la sete,
la paura, il freddo, la solitudine”. La sporcizia, il puzzo, le incontinenze, i
ratti che si gonfiano di cadaveri, i cadaveri mutilati, senza testa, senza
gambe, dissotterrati, nel cortile, la paura, delle SS, dei russi.
Una storia
di privazioni. Degli affetti: di una madre fervida nazista che si arruola nelle
Ss – e anche dopo, a guerra finita, oppone Hitler alla figlia – e di un padre
mobilitato assente, di un fratellino capriccioso. Del cibo, dei giochi, dell’aria,
della pulizia, della decenza. Fino alla liberazione, a opera di russi ladri e
stupratori. Magistrale nel suo genere: la scrittrice, naturalizzata nel frattempo italiana, inaugurava vent’anni fa con
successo il filone del racconto di disgrazie, a ogni pagina evidentemente più dure
e gravose. Insostenibile - si continua a leggere giusto perché è raccontato in prima
persona, e dunque una sopravvivenza è da aspettarsi.
In
filigrana, indirette, molte notazioni di spessore storico. Il mammismo del
maschio, che si pretende mediterraneo mentre è invece fortissimo – qui lo è –
nelle tribù da poco sedentarizzate. Il mercato nero, che domina a Berlino ancora
per un paio d’anni dopo la guerra. Il mercato nero durante la guerra, con le SS
che pure controllano il respiro. La caccia pubblica all’ebreo, sistematica,
ancora con i russi alla porta del Brandeburgo – non c’è tedesco che non abbia
avuto un vicino o conoscente ebreo deportato. La follia, o stupidità: l’“armata
del generale Wenck” sempre in arrivo per vincere la guerra, i ragazzi arruolati
a combattere i carri armati in città con le bottiglie incendiarie, i bambini
portati sotto le bombe in vacanza premio nel bunker di Hitler.
Helga
Schneider, Il rogo di Berlino,
Adelphi, pp. 228 € 11
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