La vita della trincea sotto il tiro
continuo dei cannoni, “uno di quei buchi che da anni la gioventù dei popoli ha
per casa, una di quelle residenze fortificate, strette e affumicate che si sono
già così spesso trasformate in bare”. Sotto il tiro costante dell’artiglieria –
più le bombe degli aviatori, “che non prendono mai nessuno”. Ma paciosa: letture,
annotazioni, la sigaretta, il caffè, il tramonto, le stelle, gli attendenti, la
noia. La vita felice degli aviatori anche, temerari e privilegiati - niente
fango. E i racconti dei commilitoni, interminabili – cioè ininteressanti.
Le trincee sono trappole in realtà,
costruite a profondità variabili, da non meno di dieci metri e non più di due,
secondo progettazioni accurate che finiscono con la morte in massa degli
occupanti in troppi casi. Ma niente drammi, nessuna critica. Un sistema “che espone
al fuoco centinaia di migliaia di uomini, nudi e senza difesa, implica un delle
più notevoli condanne a morte che sia mai stata pronunciata” è una riflessione
che prende giusto due righe, se non è un’aggiunta posteriore. Ritradotta in
scioltezza da Iadicicco (con una nota breve di Quirino Principe), per una
lettura più agevole rispetto al passo ponderoso dell’originale, questa è la
riedizione del 1978, che lo stesso Jünger ha curato, con qualche aggiustamento rispetto
a quella del 1924-1925 - la “lotta in cui gli eserciti popolari e la gigantesca
potenza di fuoco messa in opera si equilibrano” sembra post-Vietnam.
È il terzo volet della trilogia di Jünger sui suoi quattro anni pieni di
guerra, da tenente e poi da capitano, pluriferito, anche grave, e prurimedagliato,
dopo “Nelle tempeste d’acciaio”, 1920, pubblicato in conto autore e d’immediata
larga lettura, e “La guerra come esperienza interiore”, 1922. Ma, rispetto ai
due tomi precedenti, con un altalenarsi quasi cinico del punto di vista. La
“guerra di posizione”, “la forma più noiosa e onerosa di combattimento”, consente
di leggere, lascia molto tempo libero. La
guerra di posizione è una guerra di sterminio: “In questo combattimento in cui
si disputano un atroce campo di rovine, sul quale si affrontano due immagini
del mondo, la posta non è il migliaio di uomini che si potrebbero forse salvare
dal trapasso, è che la dozzina di sopravvissuti arrivi in tempo al suo posto
per ottenere un effetto decisivo mettendo in opera le sue mitragliatrici e le
bombe a mano”. Così, quasi cerchiobottista.
In realtà è uno dei contributi
celebrativi alla guerra, benché perduta. Jünger ha cambiato ottica, è ora un nazionalista.
In teoria trascrive alcuni taccuini di guerra, annotazioni prese nei rifugi, e
ne dice le miserie. Ma è reduce dal successo di “Tempeste d’acciaio”, che vive
come una celebrazione della sconfitta, scrive e opera tra i reduci, e tiene
duro. Lo “Stato guglielminio” è stato inferiore alle attese e forse ai doveri, “i
prussiani”, come spesso li chiama qui, ma la guerra di popolo era
bella-e-buona.
Nella prefazione (omessa nella riedizione,
e anche in questa traduzione, ma leggibile negli “Scritti politici e di guerra”)
annota: la guerra, sia pure la “guerra di posizione” (in realtà di
logoramento), e “guerra di materiali”, come lui, ufficiale comandante di una
compagnia ha subito saputo, è pur sempre un facitrice di uomini. La sconfitta
non cancella l’entusiasmo di massa, e l’identificazione possente in una nazione
che la dichiarazione di guerra ha innescato.
Un che di disturbante. Non perché non
sia pacifista, perché revanscista nella sconfitta. Come una preparazione alla
rivincita. Nella prefazione lo dice anche. “Chi non si lascia abbattere da
questo (dal “naufragio”, n.d.r.) dimostra una potenza e una capacità di dominio
innate”. Innate? ”Certo”, continuava, “da una simile scuola esce illeso solo
colui che è stato intagliato nel legno più duro, e solo in tempi di estremo bisogno
si rivela se un popolo è costituito da uomini veri”. E così via, non una
rivolta alla Barbusse, che ne “Il fuoco”, successo immediato mondiale, aveva inscenato, già nel corso del conflitto, gli orrori della “guerra di materiali”: “Ciò che importa è realizzare
la grandezza del popolo e le sue idee”. Un giorno, i figli dei caduti “si imposteranno
con fierezza della propria eredità, se il cuore autentico e miracoloso di
quest’epoca, l’eterno germanico, sarà sopravissuto oltre la nebbia della comune
quotidianità”.
Nella narrazione, questo è detto
indirettamente, del “Boschetto” perduto e riconquistato: ”Di fatto, la potenza
passa d a una mano a un’altra. Verrà però di nuovo il nostro turno”. Fino a
magnificare “la febbre del fuoco” con Goethe a Valmy (ma Goethe non combatteva),
sul’esempio del generale francese Marbot, le cui memorie “ogni soldato dovrebbe
aver letto”, per il motivo che si compiaceva di porsi in evidenza al centro del
tiro nemico per sentire il fruscio della morte…
Con un che di fastidioso anche nella “scelta”
del nemico, che quasi sempre è inglese e non francese. O allora sempre tra
fiamminghi, anche lui come poi Remarque, anche se parlano francese, anche tra
Piccardia e Artois, che pure sono regioni francesi incontestate. E con l’elogio
anche qui di Vorbeck, un coraggioso tenente aspirante comandante di compagnia,
come il bravo “lanzichenecco”, di “poche parole, il pugno rude e il cuore
aperto”, nella linea di quei “lanzichenecchi biondi che alternando temerarietà
e buon cuore sotto gli ordini di Frundsberg invasero le campagne italiane e somministrarono
agi Svizzeri una solida batosta a Pavia”
L’omaggio alla Francia, il nemico, c’è –
se non è successivo. Va ai castelli, a Le Nôtre, al vescovo di Cambrai Fénelon,
a Balzac e Stendhal. Ma la mezza pagina non rompe la magia della guerra, della
sua guerra, del capitano Jünger. Né l’invocazione culminante della mezza paginetta:
“O particella di Francia assolata in cui ci hanno gettato forze più potenti di
noi, non credere che noi conserviamo un cuore impassibile in mezzo a queste
devastazioni!”.
Un racconto anche manierato. Tanto più
per essere la trascrizione di taccuini di guerra, come Jünger li presenta. Di stile
alto, “asiatico” si sarebbe detto nella retorica antica, figurato, elevato
anche se non immaginifico. Funzionale si direbbe alla riserva: Jünger non
definisce mai negativamente ciò che pure rappresenta per tale: “i prussiani”,
la “guerra di materiali”, la “guerra di posizione”. Non si può, sarenne
disfattismo. Ma Jünger stesso è ancora in guerra. L’elogio della guerra in sé
introduce ogni altra riflessione ed è senza fine: “Benché non abbia avuto mai grandi
preoccupazioni, non avevo mai vissuto con tanta spensieratezza come in campagna.
Tutto è chiaro e semplice”, diritti e doveri sono regolati, non c’è bisogno di
guadagnare, il necessario viene fornito, e quando va male “ho mille compagni di
disgrazia e soprattutto, all’ora della morte, tutte le questioni si risolvono
in una gradevole insignificanza”, il rimedio migliore anche al cancro o alla
tubercolosi, “la prossimità della morte
è salutare come una luce sconosciuta”. Era anche in guerra contro la sconfitta: aveva appena rifatto, due volte, in senso nazionalista, le “Tempeste d’acciaio” del 1920.
Ernst Jünger, Boschetto 125. Una cronaca delle battaglie in trincea 1918, Guanda,
pp. 155 € 14,50
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