Dante - La “scala” di Maometto non sarà
quella dell’illuminismo massonico? Asín Palacios, il
religioso studioso di “Dante e l’islam”, non conosceva il “Kitāb al-Mirāj”,
noto dalle traduzioni in latino e francese come “Libro della Scala”. L’accostamento
è stato operato da Enrico Cerulli, un diplomatico - governatore per alcuni mesi
nel 1939, subito dopo l’occupazione italiana, dello Scioà, e poi per un anno
dell’Harrar, bandito dall’Etiopia indipendente come criminale di guerra. Cerulli
lo ha proposto all’attenzione nel 1949, ma lo aveva rinvenuto “nei primi anni
Quaranta”. Si cautelava, non escludendo letture comuni, a Dante come a Maometto,
sicuramente quella dell’Antico Testamento. Ma di più ricordando le tante
connessioni “tra la leggenda islamica e le ascensioni giudaico-cristiane
apocrife di Mosè, Enoc, Baruch e Isaia”. Il suo “Libro della Scala” è stato
pubblicato con notevole apparato dalla Biblioteca Apostolica Vaticana nel 1970,
regnante Paolo VI, un papa molto vicino ai laici.
Il Dante islamico è del filone esoterico.
Cerulli, poi ambasciatore in Iran, ne riportò varie sillogi di ta،ziyè, i drammi sacri sciiti, da lui
conferiti alla Biblioteca Vaticana.
Era
l’italianità per gli irredenti. È tuttora l’Italia all’estero, nelle
istituzioni culturali, negli studi, nella caratteriologia nazionale, anche la
più sguarnita, quella della pizza e del mandolino. Per la passione politica e
poetica, per l’irrequietezza, per l’intelligenza religiosa – che ora si
trascura o aborre - proteiforme..
Dizione – Gli
otorino dismettono le ansie e le diagnosi di sordità precoce a chi non “segue
più” la tv. Un po’ perché il sonoro della maggior parte dei televisori piatti è
infame. E un po’ perché la dizione dei tanti sceneggiati è incomprensibile. Si
fa infatti una differenza tra i notiziari, i cui conduttori devono aver seguito
corsi di dizione, dalle fiction in
cui bisogna essere solo un personaggio da gossip per recitare, il più in fretta
possibile, vomitare le quattro parole.
È
un segno dei tempi? La volgarità, forse. Chi comanda sa bene che deve farsi
capire. Il consiglio di Demostene è vecchio, ma non è trascurabile: “Solo tre cose
contano nella retorica: la dizione, la dizione, e ancora la dizione”. Nella
retorica, cioè nell’arte di parlare al prossimo.
Richard
Harris ne fa il cavallo di battaglia di Cicerone nel romanzo storico “Imperium”:
a scuola dai retori greci, in particolare di Apollonio Molone, avvocato
originario di Alabanda – la città dell’Asia Minore che Hölderlin evoca
nell’“Iperione”. Molone nel romanzo allena Cicerone un po’ al modo di Zeman, obbligandolo
a sfiancarsi – con la recitazione ininterrotta di poemi, pezzi di commedie,
pezzi di tragedie, “mentre percorreva senza fermarsi una ripida salita”:
“Cicerone si irrobustì i polmoni e imparò a pronunciare il massimo numero di parole
con una sola espirazione”.Ma persuasivamente. “Per la parte relativa
all’emissione vocale, Molone scendeva con lui fino alla spiaggia di ciottoli.
Lo allontanava di una cinquantina di passi (la distanza massima alla quale può
arrivare la voce umana) e lo faceva declamare sullo sfondo sonoro del mugghio e
della brezza marina, quanto di più simile vi fosse al mormorio di tremila persone
all’aperto o al borbottio di centinaia di uomini in conversazione al Senato”.
Gioia – C’è
un “Inno alla gioia” anche di Pietro Mascagni, “giovane autore”. Fuori giro, ma
almeno una volta l’Inno di Mascagni è stato eseguito, il 27 marzo 1882, al
teatro degli Avvalorati a Livorno. Mascagni aveva diciannove anni. L’inno è
quello di Schiller, musicato da Beethoven e Ciakovskij, in traduzione italiana,
di Andrea Maffei.
In
realtà è quasi un’opera, la prima al mondo di un allievo di conservatorio, un’ora
e un quarto di musica per assoli e coro.
Giornale - La
lettura del giornale Proust dice “”atto abominevole e voluttuoso”. Abominevole
perché “leggere il giornale” è caricarsi di tutte le disgrazie e i
cataclismi dell’universo durante le ultime ventiquattro ore, le battaglie che
sono costate la vita a cinquantamila uomini, i crimini, gli scioperi, le
bancarotte, gli incendi, gli
avvelenamenti, i suicidi, i divorzi, le crudeli emozioni dell’uomo di Stato e
dell’attore”. Piacevole perché, “a noi che non siamo interessati” tutte queste disgrazie, “trasmutate, per
nostro uso personale, in un regalo mattinale, si associano eccellentemente, in
modo particolarmente eccitante e tonico, all’ingestione raccomandata di alcune sorsate
di caffelatte”. Proust sorprende sempre – rispetto a quello del santino.
Grande guerra – Il trionfo
dell’idea di nazione la vuole anche Junger, “La geurra come esperienza
esteriore”, 1925, ora in “Scritti politici e di guerra”, come la prevalente
pubblicistica storica. In realtà dell’idea di “primato nazionale”. “Dopo il
tracollo”, nota, in Germania “si è tentato di far passare la grande ondata di
entusiasmo, che allora aveva sollevato ciascun singolo ben al di sopra di se
stesso, per una sorta di psicosi di massa”. Ciò è falso: “Allora la massa si
rese consapevole dell’idea di nazione al di là di ogni forma, e questo comune
soggiacere a un’idea evocò – proprio alla fine di un tempo che aveva fatto di
tutto per riconoscere come credibile solo il visibile – quell’impressione
possente, inaudita ed estranea a qualsiasi esperienza che nessun di coloro che
l’hanno vissuta potrà mai dimenticare”.
Non
fosse per lo “Stato guglielmino”, che “tramontò in quanto non seppe essere all’altezza
di quelal grande prova di forza”. Lo Stato guglielmino e non la Germania: l’idea
di nazione-primato era sempre viva.
Lingua doppia – In
letteratura (poesia, romanzo) si può dire “positiva” – in opposizione alla “lingua
biforcuta” degli indiani western. Accanto agli esempi illustri di scrittori che
a un certo punto decidono – o tentano – di scrivere in un’altra lingua, che
sentono più consona, Joyce, Pound, Lahiri in italiano, in inglese Conrad, in
francese, Beckett e i tanti rumeni, Ionesco, Cioran, Éliade, Horia, su
“Repubblica” Raffaella De Santis censisce un congruo numero di italiani che
scrivono e\o pubblicano in altra lingua: Luca Di Fulvio, che ha un editore tedesco
benché scriva in italiano, Gilda Piersanti, che vive a Parigi da trent’anni e
scrive i suoi gialli – storie romanacce - indifferentemente in italiano e in
francese, Francesca Marciano, che invece vive e lavora a Roma ma scrive i romanzi
in inglese, Monaldi & Sorti, coppia anche nella vita, che vivono a Vienna e
pubblicano in Olanda, su persone e cose indifferentemente italiane (anche una
vita di Malaparte), viennesi, olandesi.
Marciano
ama viaggiare, e scrivere in una seconda lingua dice un abito mentale, come
parlarla. Con in più un effetto di estraniamento - non nel senso brechtiano: “È
una forma di reinvenzione. Mi sento più leggera, scrivo in uno spazio vuoto che
non ha testimoni, dove non mi porto dietro bagagli o costrizioni”. La lingua
doppia sarebbe cioè favorevole alla narrazione pura – nel senso in cui ora la
si intende, avulsa, anche asettica.
Notevolissimo
è il fenomeno dell’adozione di una lingua per effetto dell’immigrazione,
volontaria e\o forzata. Volontaria per via di matrimonio, o di studio, o di
scelta di vita. Numerosissimi sono gli stranieri, di nascita e formazione, che
scrivono in italiano: oltre a Edith Bruck e Helga Schneider, i casi di maggiore
spicco, Ornela Vorpsi, Helena Janeczek, Amara Lakhous, Younis Tawfik, Talye Selasi,
Helene Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, e numerosi altri, soprattutto
del Nord Africa e dell’Est Europa.
Maigret – Porta
la bombetta! a Antibes, ne 1932. Questo cambia tutto, non può essere Gino Cervi,
né Cremer. E la indossa, la porta al’indietro, in avanti, la toglie e la mette,
anche se al Sud fa caldo. Vero è che vive e esercita per 41 anni, dal 1931 al 1972, quando Simenon decise di non scriverne piu, ma immutabile. E non sarà un po’ calvo? Veste anche inamidato, la
camicia ha col solino. Il personaggio seriale è l’attore che lo impersona –
Montalbano è Zingaretti, e i caratteristi siciliani. O anche di Simenon si può
fare a meno della filologia?
Le
incongruenze del resto sono nate col genere, con Sherlock Holmes. Tante in quel
caso che è stato, ed è, difficile impersonarlo in un attore, in un’immagine.
Mare – Non
s’immagina se non si vede? Jünger ricorda quando, “uomo dell’interno”, vide il
mare la prima volta: “Fui deluso dalle onde: mi aspettavo che fossero almeno
cento metri di altezza. Non erano alte nemmeno come le torri, come pretendevano
i libri”. Un Robinson Crusoe nato sperduto nell’oceano non potrebbe dire altrettanto
della terra, poiché deve avere un punto fermo.
Si
può vivere senza.
letterautore@antiit.eu
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