letterautore
Acquario – Si
liquidano le posizioni – l’età dell’Acquario è già finita (ma non doveva
cominciare tra cinque secoli?) Dei 1.500 libri in inglese che Ibs liquida, quattro
su cinque sono in tema.
Compagno – Aveva sostituito convivente, nelle
relazioni more
uxorio senza
matrimonio. Ma se ne va perdendo l’uso nelle unioni omosessuali, nelle quali si
preferisce il ruolo, “marito” e “moglie” – e si cerca il matrimonio, a
preferenza sull’unione di fatto. Negli Usa la ricerca continua di un
vocabolo politicamente corretto, partner essendo insufficiente per una
relazione intima e costante. Il “significant other” di qualche decennio
fa - di cui anche a una guida dei possibili disturbi, “The Significant Other’s
Guide to Dissociative Identity Disorder” - ha perso terreno .
Critico –
L’Autore è il suo Critico. I casi sono evidenti nel primo Novecento, di
Debenedetti per Svevo o Montale, e anche per la fortuna italiana di Proust.
O di Contini per Gadda, Pasolini, e tanti altri. E il contrario è anche vero,
di Citati, per esempio, che vive nei suoi autori, del mimetismo, o dello stesso
Magris narratore, che è e non è J. Roth, ma in tutto si rapporta a lui.
Umberto Eco – Il narratore richiama Evola – specie
l’argomentatore della sua stessa narrazione, “Postilla al «Nome della rosa»”,
“Confessions of a young novelist”, e molti interventi sparsi. Non il
personaggio, i suoi temi. Un Evola che fosse stato sornione, critico di se stesso
– paraculo, come si dice a Roma, per farsi voler bene.
Una lettura improbabile, la sua, quella di Evola. Eppure:tutte le
tematiche di Evola sono in Eco. Che le affronta garibaldino con lo sghignazzo
sempre, ma non sa (vuole) liberarsene. “Il pendolo di Foucault dice
(“Confessions of a young novelist”) che gli ha preso otto anni di lavoro,
quattro volte più del “Nome della rosa”, ma è un compendio sceneggiato di
Evola. Con disagio apparentemente dell’autore, e con qualche sberleffo, ma poi,
nella troppa pubblicistica con cui ha accompagno il romanzo, invece no: Eco è
un personaggio dell’ermetismo che irride. E poi dopo, nelle ultime narrazioni,
“Il cimitero di Praga” e perfino “Numero Zero”.
C’è l’Eco conversatore. L’Eco lettore, divertito e divertente. L’Eco
narratore, compiaciuto, prolisso, e immemorabile. L’Eco a tempo perso dei
“filosofi in libertà”, acuto. E l’Eco professore di semiotica, navigatore a
vista - che sa di esserlo, l’onestà è indefettibile. Tutto questo si
lega, come rumore di fondo della vivacità del personaggio – come quando si
ascoltava la radio, e a un certo punto la mattina annunciavano “Il prigioniero
di Zenda”, che non si seguiva, oppure sì ma come sottofondo sonoro, come
leggere “saltando”, e con un senso sempre di disagio, per un prigioniero, lì
sulle Api (ma Zenda è un luogo? ed è sulle Alpi? sui Carpazi?)
Romanziere postmoderno per eccellenza: di programma forse prima
che di passione o propensione. Che adotta e rinverdisce a freddo, di proposito,
il programma di Walter Scott e Dumas. Lo sguardo, seppure da dietro, sempre a
Manzoni, senza la lirica, né la concisione.
È immaginativo. Lo dice di se stesso (“Confessions of a youg
novelist”) e lo è. Conversatore disinibito e ritmato perché ispirato dalle
immagini, vede quello che racconta. Felliniano: disegna, in cento, mille
immagini, confusamente, continuamente, personaggi e situazioni.- uso che
manifesta nella primissima pubblicazione, quasi goliardica, nel 1958 a Torino,
i “Filosofi in libertà”, rimette e filastrocche accompagnate da vignette.
Resta affabulatore gradevole su sentieri agevoli, irsuto (poco
convincente, poco convinto) su per la grammatologia e l’ermeneutica
(l’intenzione dell’Autore, l’intenzione del Lettore, l’intenzione del Testo…).
Non ama la differenza che si fa tra scrittura creativa, “termine malizioso”, e
scrittura scientifica – “perché Omero è ritenuto uno scrittore creativo e
Platone no?” Ma fuori dalle agudezas (aforismi, calembour, aneddoti, motti
di spirito, ritrovamenti e accostamenti a sorpresa) è irto di unte. Non limate.
Al più, filosoficamente, un sollevatore di pietre d’inciampo -
seminatore di dubbi, sulla sua stesa riflessione.
Islam – Come materia
letteraria si direbbe ultimamente tutto femminile. Fioriscono le autrici, con
ciador e senza ma solidamente simpatizzanti o fedeli. E le storie: di ragazze
per lo più, che scappano nel califfato, tutte adepte di facebook. E ne
scrivono, posando in nero, madri che le cercano o le rifiutano, facendone
best-seller.
Italia –
“Scusatemi se ho parlato troppo, il sangue italiano mi tradisce”, ha concluso
il papa dopo lunghe ramanzine e concioni ai vescovi polacchi. L’Italia lo
tradisce nel senso che parla troppo – si parla di meno in Argentina? Oppure che
non lo tiene all’erta e in palla, lo porta a divagare? Non parla molto
dell’Italia, il papa.
Mattatore –
Proietti rispolvera il “mattatore”. Nella figura di Edmund Kean, l’attore
shakespeariano del primo Ottocento che ne è diventato il prototipo, grazie
all’opera teatrale a lui intitolata di Dumas. Un’idea che forse a Proietti è
venuta per i sessant’anni del film che a Kean dedicarono Francesco Rosi e
Gassmann. Ma è la figura centrale del teatro, di ogni forma di teatro: bisogna
dominare il pubblico, il pubblico deve’essere dominato. Avvinto, trascinato, scosso
Altrimenti si annoia. Il teatro ha bisogno di attori. Il mattatore è l’attore
cui basta indossare i panni di un personaggio, panni metaforici, per
identificarglisi completamente.
Senza riferimenti a Grillo? Invece che ricorrere a Dumas, Rosi e
Gassmann, uno spettacolo avrebbe potuto fare, molto comico, di un comico che fa
il dittatore. di un mondo ridotto a palcoscenico.
Politica –
“C’è chi si chiede tutti i giorni se la satira è satira””, riflette Massimo Bucchi su “la
Repubblica”, e commenta: “Ma si guarda bene dal chiedersi se la politica è
politica”.
Wagner – Fu
antisemita, in tutto, dalla precoce teoria e pratica musicale (“L’ebraismo
nella musica”), 1850, al successivo pregiudizio nazionalistico e politico, da
cui Nietzsche si ritrarrà inorridito. Ma si discute sempre di e come salvarlo.
Discutono gli ebrei, da ultimo Taguieff e Fubini, e i controversisti, Žižek,
Badiou. Donatella Di Cesare si supera, come filosofa tournée musicologa, nell’incensare Wagner per
interposta pubblicistica. In effetti, non ci sono più incondizionali di Wagner,
a parte Baudelaire, e naturalmente i tedeschi-tedeschi, degli ebrei, tedeschi e
non.
L’antisemitismo di Wagner Di Cesare dice contraddetto da
“Parsifal”: “Qui il protagonista, quasi lasciandosi alle spalle il legame
fraterno e elitario del Graal, si apre a una nuova comunità”. Quella europea? E
Parsifal l’ha inventato Wagner?
Nessun commento:
Posta un commento