”L’apertura del senso” e “l’interpretazione
autoritaria” sono vere. La professione autoritaria”anch’essa. Ma
fino a un certo punto, l’autore e l’opera sono reali, anche loro. Eco, che
aveva esordito con “Opera aperta”, 1962, e con Peirce, con “l’interpretazione
illimitata”, ha chiuso con un ritorno all’ordine – non gli piaceva scomparire,
giustamente..
Eco 1962, “Opera aperta”, vuole l’opera dell’interprete,
lettore compreso, Eco 1990, “I limiti dell’interpretazione”, non più – e con humour anche un po’ dispettoso: professorale
e arrabbiato. Nel mezzo “Lector in fabula”, 1979, dove Eco comincia ad avere i
primi dubbi sulla sua capacità di sorcier.
Il ripensamento del 1990 è ribadito due anni dopo nelle tre conferenze Tannner
qui raccolte, insieme con le obiezioni di Rorty, Jonathan Culler e Christine
Brooke-Rose, una presentazione dello stesso Eco, una prefazione riassuntiva del
dibattito di Stefan Collini, e una postfazione orientativa dello stato
dell’arte - della semiologia vs. il
decostruzionismo - di Sandra Cavicchioli, che cura la pubblicazione. Un “aureo
libretto”.
Culler garbato prende un po’ in giro Eco
rifacendogli il verso: “Nel profondo, nella sua anima ermetica che lo conduce
verso coloro che egli chiama gli «Adepti del Velame», egli stesso crede che la
sovra interpretazione sia più interessante e intellettualmente preziosa
dell’interpretazione «fondata» e moderata”.
Non può essere che così, già con “Il pendolo di Foucault”, 1988, anzi già con
“Il nome della rosa”: Eco è solo immerso nel segreto – l’esoterico, la
confraternita, il complotto. Come se “Il nome della rosa”, un gioco che si è
rivelato un giocattolo di gloria mondiale e forse perpetua, lo avesse stregato.
Così è per la questione in sé. L’interpretazione
deve essere incisiva – una “narrazione” in sé – se vuole avere ragione
d’essere. Culler cita opportunamente Chesterston: “O la critica non è buona
affatto (una proposizione totalmente difendibile), oppure fare critica
significa dire di un autore proprio quelle cose che gli farebbero perdere le
staffe”. Ma non c’è dubbio che la decostruzione alla Derrida è fine a se stessa
e potenzialmente destabilizzante: appanna, e sottrae, il piacere del testo, e
poi a che pro - Derrida è un sadico, si diverte solo lui?
D’altra parte, la decostruzione della
decostruzione, che Eco ha avviato trattatisticamente con “I limiti dell’interpretazione”, 1990, e in
queste Tanner Lectures all’università di Harvard,1992, rafforza, è ben è ben
una teoria, come la decostruzione stessa: un’opera d’autore. La lettura va
fatta con sobrietà. Al risparmio anche, senza avarizia. E rispettosa –
altrimenti non ce ne sarebbe ragione.
“La questione dell’interpretazione” Eco
ha eletto a varie riperse e in varie sedi come il suo campo di studi centrale.
Nel 1990, a seguire sul “Pendolo di Foucault”, 1988 (ogni due anni un nuovo volet, cosa c’è sotto?) organizzò questa
presentazione per gli Usa dei suoi nuovi “Limiti”, dove sapeva che sarebbe
stata contestabile. “Provocante”, anzi, “per qualcuno che ha scritto «L’opera
aperta» vent’anni fa”. Ma senza tradimenti, pretende, restando anzi “fedele a una
dialettica già presente in «L’opera aperta», cioè una dialettica tra libertà
(dell’interpretazione) e fedeltà al testo”. Secondo questa linea: “Più si è
fedeli al testo, più si è liberi di interpretarlo”.
Eco, seguace di Peirce, quindi del suo
“fallibilismo”, procede di suo come un bulldozer, per verità, più o meno
dichiarate, magari con l’insinuazione e il ghigno. Procede formalmente per incertezze, non per certezze. Per il
fallibilismo tricuspide di Peirce, del saggio così intitolato del 1897: “Ci
sono tre cose che non possiamo mai sperare di raggiungere con il ragionamento,
ovvero la certezza assoluta, l’esattezza assoluta, l’universalità assoluta”. Quello
che sarà il trial per error di
Popper. E in qualche misura si connette al relativismo. Nel senso del “probabilismo”
di De Finetti, del saggio omonimo, 1931 - “relativistico è lo spirito
informatore, anche inconscio, anche se nascosto, anche se rinnegato”.
La cosa Peirce ammetteva che fosse
“negata da chi ne teme le conseguenze, nella scienza, nella religione e nella
moralità”. Ma senza effetti per la
scienza: “Il conservatorismo – nel senso del terrore delle conseguenze – è
talmente fuori luogo nella scienza, che al contrario è sempre stata spinta in
avanti dai radicali e dal radicalismo, nel senso dell’impazienza di portare le
cose all’estremo”. Moltiplicando quindi la possibilità di errore – anche se con
una riserva, aggiungeva Peirce: le cose portate all’estremo “non da un radicalismo
arcisicuro”, quale poteva essere il positivismo al suo tempo imperante, bensì
da un radicalismo che tenta esperimenti”. Qui già resta poco dell’Autore e
dell’Opera, ridotti a corpore vili.
Umberto Eco, Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani, pp. 208 € 7,50
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