È la postfazione per la traduzione
francese ora approntata di “Partigia”, il libro che lo storico ha pubblicato
nel 2013 sulla Resistenza e la cattura di Primo Levi in valle d’Aosta, e sull’“evento
brutto” che lo aveva turbato - “evocato nel 1975, in dodici ellittiche righe
del «Sistema periodico»”. Evento
che Luzzatto ha identificato nell’esecuzione a freddo, senza motivo, se
non l’“indisciplina”, e senza un giudizio, di due ragazzi dello stesso
movimento il 9 dicembre 1943, Fulvio Oppezzo e Luciano Zambaldano.
Un’esecuzione sommaria da parte di un gruppo di partigiani poco o per nulla
attivi, più che altro sfollati, tutti laureati, come se in montagna avessero
portato le abitudini della buona borghesia - “il cuore di tenebra del mio
libro”.
La ricostruzione di questo episodio gli
ha valso critiche che lo storico ha voluto approfondire. E ci torna su con una
serie di nuove ricerche e prove che confermano la sua ricostruzione: i due
ragazzi non erano colpevoli di nulla. Se non, forse, di aver macellato di nascosto,
non di insubordinazione o tradimento, né di altri delitti gravi. Una
documentazione emersa successivamente conferma peraltro che i due furono uccisi
a bruciapelo, con un colpo di pistola alla tempia, “probabilmente mentre
dormivano”. Di questi metodi spicci, senza un giudizio, si può aggiungere la testimonianza che, in contemporanea con Primo Levi, ne dava Meneghello nel profuso racconto del suo anno e mezzo da partigiano, “I piccoli maestri”.
Nella ricostruzione anche alcune storie
drammatiche nuove. Della sfollata Elsa Pokorny, un’anziana ebrea austriaca,
suicida il giorno stesso in cui il genero arrivava per rassicurarla. Albina Zambaldano,
sorella di Luciano, oggi novantenne lucida e coriacea, una vita segretaria alla
Einaudi, che dopo “Partigia” ha convocato Luzzato per confermargli tutto, e
anche suoi numerosi incontri sull’argomento con primo Levi, da subito dopo il
ritorno del chimico scrittore dalla prigionia, nel 1946. La testimonianza di
Félicie Rosset, che nell’autunno del ’43 – a ventidue anni – faceva la maestra
elementare ad Amay nella scuola pluriclasse accanto all’albergo “Ristoro”, dove Primo Levi alloggiava,
presente al rastrellamento del 13 dicembre, con l’arresto del futuro scrittore
e delle due “dottoresse”, Vanda Maestro e Luciana Nissim: Levi, per far capire
alle dottoresse che non gli avevano trovato carte compromettenti, le salutò in
latino: “Omnia mea mecum fero”. E nuove storie del tenente Edilio Cagni, “spia
integrale” per Levi, “il prototipo novecentesco del cacciatore di prede umane”
per Luzzatto, riciclatosi dopo la guerra in confidente dell’Oss-Cia, e poi in
varie avventure, con molti anni a Regina Coeli, e un decennio nell’Iran di
Khomeini. O del suo collaboratore Domenico De Ceglie, un giovane allora di
vent’anni, che aveva fatto arrestare Primo Levi con una spiata, sfuggito alla
defascistizzazione.
La seconda metà della postfazione
analizza il “reducismo”. Dapprima nella forma del radicamento torinese di
“Lotta continua”, in rapporto alla “Resistenza tradita” e alla “Resistenza
continua”. Poi la parte più interessante: il doppio ruolo di Primo Levi, reduce
senz’altro, della montagna e del lager, e testimone di una continuità mancata.
Essendo nel frattempo passato dagli ambienti politici di Giustizia e Libertà
all’orbita Pci – la “vittima umana” della sua prima memorialistica diventa
“vittima politica”.
“Fra gli ingredienti della ricetta che rende «Se questo è un uomo» un libro
unico entro il genere della memorialistica sulla Shoah”, riepiloga Luzzatto, “è
la rinuncia a rappresentare la condizione della vittima di Auschwitz come
vittima semita piuttosto che come vittima umana. È l’invito ai lettori perché
considerino – fin dal titolo del libro, e poi nel salmo inaugurale – «se questo
è un uomo» piuttosto che «se questo è un ebreo». D’altronde, il lavoro di
editing compiuto da Levi in fase di stesura, dalla prima versione
dattiloscritta a quella pubblicata nel 1947, era andato precisamente nel senso
del levare quanto definisse in termini ebraici la condizione dell’internato,
per definirla in termini universalistici (salvo far precedere il tutto dai
versi ricalcati sulla Shemà, la preghiera degli ebrei: più che un
esergo, un comandamento)”. Testimone sempre
ritroso del suo “impegno” nella Resistenza, che considerava
dilettantesco – fino al punto di rifiutarsi di salutare nel 1967 l’albergatrice
che lo ospitava in montagna dopo l’armistizio, e che fu arrestata con lui,
scesa in città a omaggiarlo in occasione di una sua premiazione: “Primo Levi
interessava a Primo Levi per la sua condizione di reduce del Campo, non per
quella di reduce della Banda: in quanto ebreo salvato dalle «selezioni», non in
quanto partigiano catturato in rastrellamento”.
Ancora a metà degli ani 1970, malgrado l’opportuno schieramento
come compagno di strada del Pci, e quindi della retorica della Resistenza, diminuiva
con chi lo intervistava il suo coinvolgimento: “Disse la ridicola pistola
intarsiata di madreperla, l’improntitudine di ribelli senza armi né munizioni,
i «partigiani un po’ banditi» raccolti sopra Arcesaz, il mal fondato sentimento
di sicurezza dei partigiani al Col de Joux («non avevamo ancora fatto niente,
era una banda di nome, ma non di fatto»).
Poi “L’attualità internazionale e l’attualità italiana degli
anni settanta resero Levi particolarmente sensibile a ciò che l’autore di «Se questo è un uomo» aveva
scelto di sottacere nel 1947: sia le origini
storiche dell’universo concentrazionario, sia le circostanze politiche che
avevano fatto degli antifascisti una componente della popolazione internata nei
campi. Senza omettere , era sempre Primo Levi, nel libro che pubblicò allora,
“Il sistema periodico”, le dodici righe sul “segreto brutto”.
Sergio Luzzatto, Ritorno su “Partigia”, pp. 32, free online c\o Il Sole 24 Ore
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