martedì 16 agosto 2016

Una brutta storia della Resistenza

È la postfazione per la traduzione francese ora approntata di “Partigia”, il libro che lo storico ha pubblicato nel 2013 sulla Resistenza e la cattura di Primo Levi in valle d’Aosta, e sull’“evento brutto” che lo aveva turbato - “evocato nel 1975, in dodici ellittiche righe del «Sistema periodico»”. Evento che Luzzatto ha identificato nell’esecuzione a freddo, senza motivo, se non l’“indisciplina”, e senza un giudizio, di due ragazzi dello stesso movimento il 9 dicembre 1943, Fulvio Oppezzo e Luciano Zambaldano. Un’esecuzione sommaria da parte di un gruppo di partigiani poco o per nulla attivi, più che altro sfollati, tutti laureati, come se in montagna avessero portato le abitudini della buona borghesia - “il cuore di tenebra del mio libro”.
La ricostruzione di questo episodio gli ha valso critiche che lo storico ha voluto approfondire. E ci torna su con una serie di nuove ricerche e prove che confermano la sua ricostruzione: i due ragazzi non erano colpevoli di nulla. Se non, forse, di aver macellato di nascosto, non di insubordinazione o tradimento, né di altri delitti gravi. Una documentazione emersa successivamente conferma peraltro che i due furono uccisi a bruciapelo, con un colpo di pistola alla tempia, “probabilmente mentre dormivano”. Di questi metodi spicci, senza un giudizio, si può aggiungere la testimonianza che, in contemporanea con Primo Levi, ne dava Meneghello nel profuso racconto del suo anno e mezzo da partigiano,  “I piccoli maestri”.
Nella ricostruzione anche alcune storie drammatiche nuove. Della sfollata Elsa Pokorny, un’anziana ebrea austriaca, suicida il giorno stesso in cui il genero arrivava per rassicurarla. Albina Zambaldano, sorella di Luciano, oggi novantenne lucida e coriacea, una vita segretaria alla Einaudi, che dopo “Partigia” ha convocato Luzzato per confermargli tutto, e anche suoi numerosi incontri sull’argomento con primo Levi, da subito dopo il ritorno del chimico scrittore dalla prigionia, nel 1946. La testimonianza di Félicie Rosset, che nell’autunno del ’43 – a ventidue anni – faceva la maestra elementare ad Amay nella scuola pluriclasse accanto all’albergo “Ristoro”, dove Primo Levi alloggiava, presente al rastrellamento del 13 dicembre, con l’arresto del futuro scrittore e delle due “dottoresse”, Vanda Maestro e Luciana Nissim: Levi, per far capire alle dottoresse che non gli avevano trovato carte compromettenti, le salutò in latino: “Omnia mea mecum fero”. E nuove storie del tenente Edilio Cagni, “spia integrale” per Levi, “il prototipo novecentesco del cacciatore di prede umane” per Luzzatto, riciclatosi dopo la guerra in confidente dell’Oss-Cia, e poi in varie avventure, con molti anni a Regina Coeli, e un decennio nell’Iran di Khomeini. O del suo collaboratore Domenico De Ceglie, un giovane allora di vent’anni, che aveva fatto arrestare Primo Levi con una spiata, sfuggito alla defascistizzazione.
La seconda metà della postfazione analizza il “reducismo”. Dapprima nella forma del radicamento torinese di “Lotta continua”, in rapporto alla “Resistenza tradita” e alla “Resistenza continua”. Poi la parte più interessante: il doppio ruolo di Primo Levi, reduce senz’altro, della montagna e del lager, e testimone di una continuità mancata. Essendo nel frattempo passato dagli ambienti politici di Giustizia e Libertà all’orbita Pci – la “vittima umana” della sua prima memorialistica diventa “vittima politica”.
“Fra gli ingredienti della ricetta che rende «Se questo è un uomo» un libro unico entro il genere della memorialistica sulla Shoah”, riepiloga Luzzatto, “è la rinuncia a rappresentare la condizione della vittima di Auschwitz come vittima semita piuttosto che come vittima umana. È l’invito ai lettori perché considerino – fin dal titolo del libro, e poi nel salmo inaugurale – «se questo è un uomo» piuttosto che «se questo è un ebreo». D’altronde, il lavoro di editing compiuto da Levi in fase di stesura, dalla prima versione dattiloscritta a quella pubblicata nel 1947, era andato precisamente nel senso del levare quanto definisse in termini ebraici la condizione dell’internato, per definirla in termini universalistici (salvo far precedere il tutto dai versi ricalcati sulla Shemà, la preghiera degli ebrei: più che un esergo, un comandamento)”. Testimone sempre  ritroso del suo “impegno” nella Resistenza, che considerava dilettantesco – fino al punto di rifiutarsi di salutare nel 1967 l’albergatrice che lo ospitava in montagna dopo l’armistizio, e che fu arrestata con lui, scesa in città a omaggiarlo in occasione di una sua premiazione: “Primo Levi interessava a Primo Levi per la sua condizione di reduce del Campo, non per quella di reduce della Banda: in quanto ebreo salvato dalle «selezioni», non in quanto partigiano catturato in rastrellamento”.
Ancora a metà degli ani 1970, malgrado l’opportuno schieramento come compagno di strada del Pci, e quindi della retorica della Resistenza, diminuiva con chi lo intervistava il suo coinvolgimento: “Disse la ridicola pistola intarsiata di madreperla, l’improntitudine di ribelli senza armi né munizioni, i «partigiani un po’ banditi» raccolti sopra Arcesaz, il mal fondato sentimento di sicurezza dei partigiani al Col de Joux («non avevamo ancora fatto niente, era una banda di nome, ma non di fatto»).
Poi “L’attualità internazionale e l’attualità italiana degli anni settanta resero Levi particolarmente sensibile a ciò che l’autore di «Se questo è un uomo» aveva scelto di sottacere nel 1947: sia le origini storiche dell’universo concentrazionario, sia le circostanze politiche che avevano fatto degli antifascisti una componente della popolazione internata nei campi. Senza omettere , era sempre Primo Levi, nel libro che pubblicò allora, “Il sistema periodico”, le dodici righe sul “segreto brutto”.
Sergio Luzzatto, Ritorno su “Partigia”, pp. 32, free online c\o Il Sole 24 Ore

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