“Ci sono i gangster e c’è l’amore”, dice
un vecchio impresario a un giovane commediografo nel romanzo “La gang dei
sogni” di Luca Di Fulvio, “l’America parlerà solo di noi”. Ed è vero, da
Bernstein, “West Side Story”, a Sergio Leone, “C’era una volta l’America”, e
molto Scorsese.Anche a Napoli ci sono i gangster e c’è l’amore, nelle canzoni e
fuori, ma la cosa è senza prospettive. A Napoli non c’è altro, non c’è
l’America – al più c’è ‘Italia.
“Io sono Nordest. La narrazione delle
scrittrici” è il tema del dibattito con Annalisa Bruni, Irene Cao, Mary B.
Tolusso a Pordenonelegge, il festival di letteratura cui “La Lettura” dedica
una mezza dozzina di pagine, non a pagamento. Irene Cao promette bene, che scrive
porno, benché algido.
“Vista dal ferry boat che attraversa lo
Stretto dal continente, Messina appare una piccola città portuale
ragionevolmente prospera, con alcuni grandi moderni palazzi di uffici,
soprattutto banche, sul lungomare, e con ville graziose di media grandezza
distribuite sulle colline dietro la città. L’impressione è falsa. Messina è di
fatto una città morta”. È la silhouette
che della città disegna Margaret Carlyle, “The Awakeming of Southern Italy”, 1962.
Avendoci vissuto in quegli anni per fare le scuole, non si può che
testimoniarlo: era città gradevole. Che fosse morta però non si vedeva. Sarà
accertato qualche anno dopo, quando la città e la gloriosa università
riusciranno anche a imbruttirsi, nello squallore. La storia come freccia può
andare al rovescio.
La
creazione del Sud
“Mi sono svegliato con una testa di marmo
tra le mani”, Seferis così compendiava il suo Mediterraneo. Nell’introduzione a
“Ispirazioni mediterranee”, la conferenza che Valéry tenne nel 1933
all’università delle Annali, Maria Teresa Giaveri così sintetizza i tanti
secoli di mito del Mediterraneo: “Tutto ciò che non è mai esistito ad Atene né
a Roma, che mai è stato cantato da Omero né da Virgilio (tempi bianchi come
lenzuola, uomini maestosi come statue), forma il senso figurale e letterario
che, da qualche secolo, domina i Grand Tours e i diari di viaggio, le
architetture e i poemi che si vogliono «classici»”. Dominava, da tempo non più.
Ma è certo un falso mito.
Il falso mito nasce quando il
Mediterrane non è più “la sede della legittimità politica”, né dei commerci e
della ricchezza. Alimentato in successione dal culto nascente delle antichità
che si andavano scavando e tesaurizzando – “come l’orientalismo e l’esotismo”:
è il fascino delle rovine. Poi dallo Sturm und Drang, con la “scoperta” dei
mondi popolari, “meravigliosamente arcaici, in cui si vive secondo tradizioni
apparentemente immutabili”.
È la “creazione” del Sud che lo ingessa,
anche con le migliori buone intenzioni. Nella quale il Sud si ingessa.
Oggi del resto, direbbe Danilo Dolci, il
Sud che Valéry voleva sole e mare ha qualche problema: “Il sole? Costa soldi,\
per l’ombra, soldi,\ soldi, guardare il
mare\ soldi, trovare un minimo silenzio,\ sta diventando un prezioso lusso\
tuffarsi in acque non inquinate”.”.
Il
risveglio del Sud
“The
Awakening of Southern Italy” è un libro del 1962, di Margaret Carlyle, non
tradotto in italiano, caso unico nella pubblicistica sull’Italia, il risveglio
del Sud. Di una studiosa giovane ma storica internazionalista già affermata,
della guerra fredda in Europa, il blocco di Berlino, l’“insicurezza” della
Russia. Assistita e orientata in Italia da Umberto Zanotti Bianco, Manlio Rossi
Doria, la Svimez, e il ministero degli Esteri. Per una ricerca laboriosa, a
partire dal 1955, benché centrata soprattutto sulla riforma agraria, che la
ricercatrice aveva voluto controllare sul posto, in giro per le regioni
interessate, alle quali dedica distinti capitoli.
Carlyle
elogia in partenza “il lavoro rivoluzionario avviato dal governo” – in omaggio
probabilmente a Antonio Segni, che da ministro degli Esteri e presidente del
consiglio ne aveva favorito la ricerca. Questo può aver determinato la mancata
traduzione. Ma parte anche contrapponendo la recente storia repubblicana a
quella dell’Italia unita: “Il consenso è generale tra i migliori scrittori
sull’abbandono e le ingiustizie nell’Italia meridionale dopo il 1860”.
È un
punto su cui ritorna più volte. La stessa alienazione della manomorta (i beni
della chiesa) fu un doppio danno per il Sud, spiega: lo privò delle opere
assistenziali della chiesa, e il ricavato della cessione lo investì al Nord.
Leggendo
questo “Awakening” l’impressione emerge di un Sud sclerotizzato
dall’unificazione, che per questo non riesce a liberarsi dall’oppressione dei
primi ottant’anni di storia unitaria. Anche la “bellezza”, alla quale il Sud è
stato confinato, in parallelo con la deprecazione, è un mito negativo, spiega
Carlyle: “La Sicilia ha forse sofferto più di ogni altra regione d’Italia del
mito del mito del Sud lussureggiante”.
Il reportage è naturalmente superato. Ha
ancora le “terrazze di limoni” della costiera amalfitana, e un barlume delle
terrazze di zibibbo della “costa viola”, da Bagnara a Scilla, già allora in via
di abbandono – mentre fanno la ricchezza delle Cinque Terre in Liguria. Ma è
curioso che i problemi siano oggi quelli di allora: il dissesto geologico, la
questione demografica (allora troppe nascite, oggi troppo poche), la scarsezza
dei capitali, la scarsa produttività dell’agricoltura. Con molto non detto. I
professori dell’università di Messina, romani o di altrove, che preferiscono
farsi due giorni di viaggio a settimana piuttosto che passarci qualche mese. La
semplice rivoluzione del DDT, 1945-1948, che, velenoso e tutto, ma stroncò la
malaria, in Sardegna diffusissima, in Sicilia e in Calabria. La classe media
che non c’è, evapora: “Una delle debolezze della società meridionale è stata
l’assenza di una attiva e responsabile classe media”. C’è pure il Pasolini di
allora, rivoltato: “Ci sono ancora, purtroppo, persone in posti influenti nella
chiesa e nello stato che affermano che “i veri valori nazionali” son da
cercarsi tra i contadini; che l’Italia
delle virtù esiste nella campagna”. E – curiosità – c’è pure l’immagine di Cutro
paradigmatica, come per Pasolini, del Sud da aborrire.
Carlyle
si giustifica da ultimo al livello minimo: “È il senso del movimento ovunque
nel Sud che giustifica il tiolo di questo libro”. Rifacendosi al Rossi Doria
del “tutto è in movimento”. Che però intendeva soprattutto dei lavoratori, dal
Sud al Nord.
Aspromonte
Non se ne può parlare perché è la fama che
gli si è cucita addosso è sinistra. Tra Corrado Alvaro, la sua “Gente in
Aspromonte”, e i rapimenti di persona. Ma è montagna aperta, affacciata sul
mare. Luminosa. Secca. Ventilata. Sonnacchiosa, come tutte le montagne, o
riservata, ma sorridente e non arcigna. Ed era viaggiata, prima, senza mai
problemi, benché a piedi o sul mulo, da persone miti e remote, Edward Lear,
Norman Douglas, Henry Swinburne già nel Settecento, il delicato mammista de
Custine.
La montagna è come von Haller l’ha
poetata tre secoli fa in “Die Alpen”, 1729, una delle prime “scoperte” del
massiccio, da svizzero montanaro di spirito, benché medico, scienziato,
filosofo e poeta, quale Ladislao Mittner lo tratteggia. La natura non vi è
“indipendente”, slegata dall’uomo, benché dominante: anche nei recessi e nella
solitudine è precorritrice e guida della ragione morale, del modo d’essere, e
ne è l’ancella – è come un’innamorata: se corrisposta corrisponde.
Col miele di castagno, “aspro e amaro,
eppure dolce”, come lo ricordano i calabresi a New York di “La gang dei sogni”,
il romanzone di Luca Di Fulvio. E “la pasta di mandorle”.
Ma, come spiegava Nino Scutellà, “ci
sono diecine di tipi di mandorle”, e “centinaia di tipi di zucchero”.
.
Corrado Alvaro è parte principale della
demonizzazione della montagna. Contrariamente alle intenzioni, perché ne era appassionato
– tramite il padre, la figura che non nomina, o raramente, ma è il suo alter
ego tutta la vita, considerato e intraprendente, volitivo, mai apatico o rassegnato
o indolente – e lo animava di miti e divinità. Autore non solo del celebrato “Gente
in Aspromonte” ma anche del s oggetto di “Patto col diavolo”, il film di Luigi
Chiarini che anticipò nel 1949 la nerezza di “Anime nere” di Criaco e Munzi. Ma
nel film scoprì sorpreso che il suo aborrito San Luca era meglio di come lo
viveva: “Il mio paese è cinema a sua stessa insaputa. Ora che li ho visti, i
miei compaesani, davanti alla macchina da presa, mi sono accorto che sempre,
quando si muovono, quando si fermano, quando si raccolgono in gruppi o dai
gruppi si separano, fanno «inquadratura»', anche se non sanno cosa essa sia.
Tutto questo non è artificio loro né visione artificiosa in me che lo noto, ma
deriva dalla naturale armonia di movimento e di atteggiamento di questa gente
che ha alle spalle i greci antichi e gli arabi, cioè dei popoli armoniosi e ben
proporzionati in ogni esteriore manifestazione di vita secondo una consimile
proporzione morale che li regge”.
Sotto le mini e maxi serie di mafia, e
le interviste bestseller agli assassini seriali, dietro i palazzoni di miniappartamenti
per le ferie di napoletani e romani a buon mercato sulle coste ieri vergini, sopra
le borgate dei braccianti immigrati senza l’acqua, insensibile all’ “ignoranza”,
direbbe “Ringhio” Gattuso che vuole distruggere col cemento armato, gli
scheletri a quattro piani di case che non saranno mai completate, destinate peraltro
a nessuna abitazione, che alla catena del debito hanno assoggettato con la
banca a vita, si estende, screditata tanto quanto sconosciuta, la C alabria d
montagna. Diverso da tutte le altre montagne, le Alpi, gli Appennini, l’Aspromonte
è una scala terrazzata. Una serie di scale con pianori di affaccio disseminati
a tutto tondo sui tre mari, a varie altezze, e coltivate, a patate, a ortaggi,
a castagno. Sopra valli ampie, larghe, profonde, di ulivi mareggianti: elevati,
frondosi, acchittati come alla prima comunione. Testimoni di un impegno
costante di secoli e millenni, contro la natura che è sempre avara quan do non
tradisce, tra malaria, siccità, malattie, di un popolo laborioso e tenace – e fino
a ieri sordo all’“Italia”, al “tutto subito” della corruzione e i veleni.
Le valli risalgono e non scendono, la
montagna ne è madre, vigile, protettiva. “Quandu u tempu è da muntagna,\ pigghia
u zappuni e va’ a’ campagna.\ Quando u tempu è da marina\ lèvati tardu e va’ a’
cantina”, è previsione meteorologica sicura: quando il maltempo minaccia dalla
montagna, vai tranquillo a lavorare. Era popolata, da capanni in pietra,
monasteri, stalle e stazzi, e terra di transumanze, anche stabili – sono da
noi, guardando il Tirreno, quartieri di paddechi
e natiloti, gente del versante jonico.
Teatro di scorribande e fughe non immaginarie, non solo, del Guerrin Meschino cavaliere
errante, dai saraceni a caccia di schiavi. Forse non drammatiche come la
libertà induce a pensare, c’è acquiescenza all’invasore, abbandono al più potente, al potente di turno. E
accettazione del diverso, il pagano di molti cognomi, l’arabo, lo zingaro, lo
“sciavo”, l’ebreo.
L’autodistruzione
sembra
il segno, non c’è altra parola per dirne l’attualità. Dell’ambiente più che della
montagna, indistruttibile, del carattere. in primo luogo. Ma questo non un’eccezione in Calabria, dove l’abusivismo
di necessità fa legge, è la corruzione di tutti. Anche se scheletri in cemento
armato da quattro piano e mille metri cubi non sono una soluzione ma una
condanna: a non poter mai finire il lavoro, peraltro inutile, la popolazione ogni
anno decresce, e a faticare tutta la vita per la banca. Un po’ di dura
pedagogia da parte dei sindaci, invece della demagogia, avrebbe reso un
servizio veramente democratico. O allora è la riforestazione senza criterio. Né
di luce – boschi si piantano bui, pianori s’inzeppano di piante, specie
altissime si trapiantano a occludere la vista. Né di specie – le specie
nordamericane e scandinave vanno a premio.
L’acqua è la divinità. Le sorgenti, di
faggio, di castagno, di abete, di ghiaccio, resistono alle strade tagliaboschi antincendio,
al cemento armato, e alla stessa riforestazione, come templi naturali minimi, anime
dei boschi sussurranti, quando ninfe e najadi li popolavano. Ognuna nelle belle
stagioni con le sue fila di fedeli, in riga per farne provvigione paziente per
la casa.
L’acqua è “la semenza celeste”, Simone
Weil, “Quaderno X” – qualcosa della filosofia è radicata: “La Linfa (Dioniso) è
fatta di fuoco e di acqua – l’acqua, la semenza celeste.
“Ritorno all’acqua, ritorno allo stato
primordiale, anteriore al peccato, lo stato di filiazione, lo stesso in cui l’anima
non è altro che creazione divina.
“Ritorno alla passività – Obbedienza.
«Acqua e Spirito». Che tutto ciò che nell’anima non è spirito sia acqua”.
leuzzi@antiit.eu
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