lunedì 19 settembre 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (301)

Giuseppe Leuzzi

“Ci sono i gangster e c’è l’amore”, dice un vecchio impresario a un giovane commediografo nel romanzo “La gang dei sogni” di Luca Di Fulvio, “l’America parlerà solo di noi”. Ed è vero, da Bernstein, “West Side Story”, a Sergio Leone, “C’era una volta l’America”, e molto Scorsese.Anche a Napoli ci sono i gangster e c’è l’amore, nelle canzoni e fuori, ma la cosa è senza prospettive. A Napoli non c’è altro, non c’è l’America – al più c’è ‘Italia.

“Io sono Nordest. La narrazione delle scrittrici” è il tema del dibattito con Annalisa Bruni, Irene Cao, Mary B. Tolusso a Pordenonelegge, il festival di letteratura cui “La Lettura” dedica una mezza dozzina di pagine, non a pagamento. Irene Cao promette bene, che scrive porno, benché algido.

“Vista dal ferry boat che attraversa lo Stretto dal continente, Messina appare una piccola città portuale ragionevolmente prospera, con alcuni grandi moderni palazzi di uffici, soprattutto banche, sul lungomare, e con ville graziose di media grandezza distribuite sulle colline dietro la città. L’impressione è falsa. Messina è di fatto una città morta”. È la silhouette che della città disegna Margaret Carlyle, “The Awakeming of Southern Italy”, 1962. Avendoci vissuto in quegli anni per fare le scuole, non si può che testimoniarlo: era città gradevole. Che fosse morta però non si vedeva. Sarà accertato qualche anno dopo, quando la città e la gloriosa università riusciranno anche a imbruttirsi, nello squallore. La storia come freccia può andare al rovescio. 

La creazione del Sud
“Mi sono svegliato con una testa di marmo tra le mani”, Seferis così compendiava il suo Mediterraneo. Nell’introduzione a “Ispirazioni mediterranee”, la conferenza che Valéry tenne nel 1933 all’università delle Annali, Maria Teresa Giaveri così sintetizza i tanti secoli di mito del Mediterraneo: “Tutto ciò che non è mai esistito ad Atene né a Roma, che mai è stato cantato da Omero né da Virgilio (tempi bianchi come lenzuola, uomini maestosi come statue), forma il senso figurale e letterario che, da qualche secolo, domina i Grand Tours e i diari di viaggio, le architetture e i poemi che si vogliono «classici»”. Dominava, da tempo non più. Ma è certo un falso mito.
Il falso mito nasce quando il Mediterrane non è più “la sede della legittimità politica”, né dei commerci e della ricchezza. Alimentato in successione dal culto nascente delle antichità che si andavano scavando e tesaurizzando – “come l’orientalismo e l’esotismo”: è il fascino delle rovine.  Poi dallo Sturm und Drang, con la “scoperta” dei mondi popolari, “meravigliosamente arcaici, in cui si vive secondo tradizioni apparentemente immutabili”.
È la “creazione” del Sud che lo ingessa, anche con le migliori buone intenzioni. Nella quale il Sud si ingessa.
Oggi del resto, direbbe Danilo Dolci, il Sud che Valéry voleva sole e mare ha qualche problema: “Il sole? Costa soldi,\ per l’ombra, soldi,\  soldi, guardare il mare\ soldi, trovare un minimo silenzio,\ sta diventando un prezioso lusso\ tuffarsi in acque non inquinate”.”.
   
Il risveglio del Sud
“The Awakening of Southern Italy” è un libro del 1962, di Margaret Carlyle, non tradotto in italiano, caso unico nella pubblicistica sull’Italia, il risveglio del Sud. Di una studiosa giovane ma storica internazionalista già affermata, della guerra fredda in Europa, il blocco di Berlino, l’“insicurezza” della Russia. Assistita e orientata in Italia da Umberto Zanotti Bianco, Manlio Rossi Doria, la Svimez, e il ministero degli Esteri. Per una ricerca laboriosa, a partire dal 1955, benché centrata soprattutto sulla riforma agraria, che la ricercatrice aveva voluto controllare sul posto, in giro per le regioni interessate, alle quali dedica distinti capitoli.
Carlyle elogia in partenza “il lavoro rivoluzionario avviato dal governo” – in omaggio probabilmente a Antonio Segni, che da ministro degli Esteri e presidente del consiglio ne aveva favorito la ricerca. Questo può aver determinato la mancata traduzione. Ma parte anche contrapponendo la recente storia repubblicana a quella dell’Italia unita: “Il consenso è generale tra i migliori scrittori sull’abbandono e le ingiustizie nell’Italia meridionale dopo il 1860”.
È un punto su cui ritorna più volte. La stessa alienazione della manomorta (i beni della chiesa) fu un doppio danno per il Sud, spiega: lo privò delle opere assistenziali della chiesa, e il ricavato della cessione lo investì al Nord.
Leggendo questo “Awakening” l’impressione emerge di un Sud sclerotizzato dall’unificazione, che per questo non riesce a liberarsi dall’oppressione dei primi ottant’anni di storia unitaria. Anche la “bellezza”, alla quale il Sud è stato confinato, in parallelo con la deprecazione, è un mito negativo, spiega Carlyle: “La Sicilia ha forse sofferto più di ogni altra regione d’Italia del mito del mito del Sud lussureggiante”.
Il reportage è naturalmente superato. Ha ancora le “terrazze di limoni” della costiera amalfitana, e un barlume delle terrazze di zibibbo della “costa viola”, da Bagnara a Scilla, già allora in via di abbandono – mentre fanno la ricchezza delle Cinque Terre in Liguria. Ma è curioso che i problemi siano oggi quelli di allora: il dissesto geologico, la questione demografica (allora troppe nascite, oggi troppo poche), la scarsezza dei capitali, la scarsa produttività dell’agricoltura. Con molto non detto. I professori dell’università di Messina, romani o di altrove, che preferiscono farsi due giorni di viaggio a settimana piuttosto che passarci qualche mese. La semplice rivoluzione del DDT, 1945-1948, che, velenoso e tutto, ma stroncò la malaria, in Sardegna diffusissima, in Sicilia e in Calabria. La classe media che non c’è, evapora: “Una delle debolezze della società meridionale è stata l’assenza di una attiva e responsabile classe media”. C’è pure il Pasolini di allora, rivoltato: “Ci sono ancora, purtroppo, persone in posti influenti nella chiesa e nello stato che affermano che “i veri valori nazionali” son da cercarsi tra i contadini; che l’Italia delle virtù esiste nella campagna”. E – curiosità – c’è pure l’immagine di Cutro paradigmatica, come per Pasolini, del Sud da aborrire.

Carlyle si giustifica da ultimo al livello minimo: “È il senso del movimento ovunque nel Sud che giustifica il tiolo di questo libro”. Rifacendosi al Rossi Doria del “tutto è in movimento”. Che però intendeva soprattutto dei lavoratori, dal Sud al Nord.

Aspromonte
Non se ne può parlare perché è la fama che gli si è cucita addosso è sinistra. Tra Corrado Alvaro, la sua “Gente in Aspromonte”, e i rapimenti di persona. Ma è montagna aperta, affacciata sul mare. Luminosa. Secca. Ventilata. Sonnacchiosa, come tutte le montagne, o riservata, ma sorridente e non arcigna. Ed era viaggiata, prima, senza mai problemi, benché a piedi o sul mulo, da persone miti e remote, Edward Lear, Norman Douglas, Henry Swinburne già nel Settecento, il delicato mammista de Custine.

La montagna è come von Haller l’ha poetata tre secoli fa in “Die Alpen”, 1729, una delle prime “scoperte” del massiccio, da svizzero montanaro di spirito, benché medico, scienziato, filosofo e poeta, quale Ladislao Mittner lo tratteggia. La natura non vi è “indipendente”, slegata dall’uomo, benché dominante: anche nei recessi e nella solitudine è precorritrice e guida della ragione morale, del modo d’essere, e ne è l’ancella – è come un’innamorata: se corrisposta corrisponde.

Col miele di castagno, “aspro e amaro, eppure dolce”, come lo ricordano i calabresi a New York di “La gang dei sogni”, il romanzone di Luca Di Fulvio. E “la pasta di mandorle”.
Ma, come spiegava Nino Scutellà, “ci sono diecine di tipi di mandorle”, e “centinaia di tipi di zucchero”.
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Corrado Alvaro è parte principale della demonizzazione della montagna. Contrariamente alle intenzioni, perché ne era appassionato – tramite il padre, la figura che non nomina, o raramente, ma è il suo alter ego tutta la vita, considerato e intraprendente, volitivo, mai apatico o rassegnato o indolente – e lo animava di miti e divinità. Autore non solo del celebrato “Gente in Aspromonte” ma anche del s oggetto di “Patto col diavolo”, il film di Luigi Chiarini che anticipò nel 1949 la nerezza di “Anime nere” di Criaco e Munzi. Ma nel film scoprì sorpreso che il suo aborrito San Luca era meglio di come lo viveva: “Il mio paese è cinema a sua stessa insaputa. Ora che li ho visti, i miei compaesani, davanti alla macchina da presa, mi sono accorto che sempre, quando si muovono, quando si fermano, quando si raccolgono in gruppi o dai gruppi si separano, fanno «inquadratura»', anche se non sanno cosa essa sia. Tutto questo non è artificio loro né visione artificiosa in me che lo noto, ma deriva dalla naturale armonia di movimento e di atteggiamento di questa gente che ha alle spalle i greci antichi e gli arabi, cioè dei popoli armoniosi e ben proporzionati in ogni esteriore manifestazione di vita secondo una consimile proporzione morale che li regge”.

Sotto le mini e maxi serie di mafia, e le interviste bestseller agli assassini seriali, dietro i palazzoni di miniappartamenti per le ferie di napoletani e romani a buon mercato sulle coste ieri vergini, sopra le borgate dei braccianti immigrati senza l’acqua, insensibile all’ “ignoranza”, direbbe “Ringhio” Gattuso che vuole distruggere col cemento armato, gli scheletri a quattro piani di case che non saranno mai completate, destinate peraltro a nessuna abitazione, che alla catena del debito hanno assoggettato con la banca a vita, si estende, screditata tanto quanto sconosciuta, la C alabria d montagna. Diverso da tutte le altre montagne, le Alpi, gli Appennini, l’Aspromonte è una scala terrazzata. Una serie di scale con pianori di affaccio disseminati a tutto tondo sui tre mari, a varie altezze, e coltivate, a patate, a ortaggi, a castagno. Sopra valli ampie, larghe, profonde, di ulivi mareggianti: elevati, frondosi, acchittati come alla prima comunione. Testimoni di un impegno costante di secoli e millenni, contro la natura che è sempre avara quan do non tradisce, tra malaria, siccità, malattie, di un popolo laborioso e tenace – e fino a ieri sordo all’“Italia”, al “tutto subito” della corruzione e i veleni.
Le valli risalgono e non scendono, la montagna ne è madre, vigile, protettiva. “Quandu u tempu è da muntagna,\ pigghia u zappuni e va’ a’ campagna.\ Quando u tempu è da marina\ lèvati tardu e va’ a’ cantina”, è previsione meteorologica sicura: quando il maltempo minaccia dalla montagna, vai tranquillo a lavorare. Era popolata, da capanni in pietra, monasteri, stalle e stazzi, e terra di transumanze, anche stabili – sono da noi, guardando il Tirreno, quartieri di paddechi e natiloti, gente del versante jonico. Teatro di scorribande e fughe non immaginarie, non solo, del Guerrin Meschino cavaliere errante, dai saraceni a caccia di schiavi. Forse non drammatiche come la libertà induce a pensare, c’è acquiescenza all’invasore, abbandono  al più potente, al potente di turno. E accettazione del diverso, il pagano di molti cognomi, l’arabo, lo zingaro, lo “sciavo”, l’ebreo.

L’autodistruzione sembra il segno, non c’è altra parola per dirne l’attualità. Dell’ambiente più che della montagna, indistruttibile, del carattere. in primo luogo. Ma questo non  un’eccezione in Calabria, dove l’abusivismo di necessità fa legge, è la corruzione di tutti. Anche se scheletri in cemento armato da quattro piano e mille metri cubi non sono una soluzione ma una condanna: a non poter mai finire il lavoro, peraltro inutile, la popolazione ogni anno decresce, e a faticare tutta la vita per la banca. Un po’ di dura pedagogia da parte dei sindaci, invece della demagogia, avrebbe reso un servizio veramente democratico. O allora è la riforestazione senza criterio. Né di luce – boschi si piantano bui, pianori s’inzeppano di piante, specie altissime si trapiantano a occludere la vista. Né di specie – le specie nordamericane e scandinave vanno a premio.

L’acqua è la divinità. Le sorgenti, di faggio, di castagno, di abete, di ghiaccio, resistono alle strade tagliaboschi antincendio, al cemento armato, e alla stessa riforestazione, come templi naturali minimi, anime dei boschi sussurranti, quando ninfe e najadi li popolavano. Ognuna nelle belle stagioni con le sue fila di fedeli, in riga per farne provvigione paziente per la casa.
L’acqua è “la semenza celeste”, Simone Weil, “Quaderno X” – qualcosa della filosofia è radicata: “La Linfa (Dioniso) è fatta di fuoco e di acqua – l’acqua, la semenza celeste.
“Ritorno all’acqua, ritorno allo stato primordiale, anteriore al peccato, lo stato di filiazione, lo stesso in cui l’anima non è altro che creazione divina.
“Ritorno alla passività – Obbedienza. «Acqua e Spirito». Che tutto ciò che nell’anima non è spirito sia acqua”.

leuzzi@antiit.eu 

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