Altre divagazioni sul suo proprio lavoro,
dopo la”Postilla al Nome della Rosa”, e l’enorme paratesto a “Il pendolo di
Foucault”, materia a un futuro ecobiblismo. Una rilettura dei suoi romanzi,
senza “Il cimitero di Praga” per fortuna, e “Numero zero”. Con riuso di molti
materiali già noti e discussi. Con la curiosa dissociazione, molto echiana, della
difesa della “semiosi illimitata” di Peirce e insieme della necessità di
limitarla, ancorarla. Con ampie esposizioni delle due “tecniche postmoderne” di
cui vanta l’uso: l’“ironia intertestuale” e il “metaracconto”, la “riflessione
del testo sulla sua propria natura”. Ciò che si definisce “doppia codifica”. Cose
che il lettore trova senza spiegazioni fumose in Manzoni – in Dumas, Walter
Scott.
Scivoloso. Subito su scrittura creativa
e scrittura scientifica: la scrittura è “creativa” tra virgolette, e il termine
è “malizioso”. Da logico post-scolastico, che però, invece di iscriversi alla
neo-tomistica, si è ingolfato nella semiotica. Illuminandola con l’estro e il
garbo, ma smarrito. Facendosi sempre perdonare per l’indefettibile autoironia:
“Una volta ho perfino scritto, con tocco
d’arroganza platonica, che consideravo i poeti e gli artisti in generale come
prigionieri delle loro proprie menzogne, come degli imitatori d’imitazioni,
mentre in quanto filosofo io avevo accesso al vero mondo platonico delle Idee”.
Ma smarrendo il fedele lettore: a quale Eco appigliarsi?.
È un falso pentito, gli uditori cui si
indirizzava configurando come un tribunale. Confessa – rivendica - “la passione
per la falsificazione”. E non tutto, dice, rivela “Per scrivere un romanzo di
successo, un autore deve conservare il segreto su certe ricette”. Con un ghigno?
Insensato. Sofistico: di ogni scelta dà ragioni diverse, probabilistiche,
teoriche, tutte vere, cioè tutte false – talvolta le “falsifica” lui stesso: il
relativismo è sofistico. Non cinico. Non scettico. Stimolante, ma a nessun
esito.
Dei romanzi dà i tempi di lavorazione. Poco cerdibili – in tutto, per i cinque romanzi di allora, fanno ventisei
anni. Si vuole figurativo, e in quache modo lo è: produceva migliaia di abbozzi,
schizzi, disegni di ogni perdonaggio, luogo, situazione – come Fellini, Günter
Grass. E ricorda che Marco Ferreri si era proposto di fare “Il nome della rosa”
al cinema perché tutto è precciso nel romanzo: “Il suo libro mi sembra concepito
espressamente perché se ne faccia una sceneggiatura, i dialoghi hanno
esattamente la giusta lunghezza”. Giusta, intende Eco, perché si svolgono
dentro e tra ambienti da lui calcolati in minuziose topografie.
“Il nome della rosa”, primo successo
planetario istantaneo, prima del “Codice da Vinci” e di “Gomorra”, finisce per
non spiegare, “i lettori ingenui e di poca cultura” escludendo “da questo
gioco” postmoderno “di scatole cinesi, da questa regressione delle fonti, che
conferiscono alla storia un’aura di ambiguità”. Il suo obiettivo essendo “una
sorta di complicità silenziosa col lettore colto”. Milioni di lettori colti? In
effetti questo libro, una serie di lezioni a un pubblico colto, di un autore
sui propri libri, di un semiologo sui propri segni, è eccezionale. È anche
buona cosa – a parte l’effetto mercato, di convitare gli studenti americani,
futuri mediatori culturali, a un incontro ravvicinato prolungato con l’Autore
Celebre e il Celebre Semiologo? Poco ne resta.
Sono poche le confessioni. Forse solo
una: che scrisse “Il nome della rosa” per caso. Invitato dalla redattrice sua
amica di una piccola casa editrice a scrivere un breve racconto giallo, lui
come altri “scienziati”, rifiutò vantando: “Se dovessi scriverne uno, lo farei
di cinquecento pagine”, dopodiché la molla scattò. Si può anche credergli. Un
quarto del materiale, “Autori, testi e interpreti”, è ripreso da
“Interpretazione e sovrainterpretazione”, di vent’anni prima, che a sua volta
si rifaceva al voluminoso trattato “I limiti dell’interpretazione”. E un altro
quarto abbondante dalle “Mie liste”, di cui approntava un volume a parte –
ricco, questo, di un’imponente selezione di immagini. Elenchi spenti, nulla
della vertigine delle liste originarie di Rabelais. Il saggio centrale è di
semiologia: il Lettore Empirico, il Lettore Modello, l’Autore Empirico. E anche
il primo quarto, il più originale, “Scrivere da sinistra a destra”, è farcito
di grammatologia indigesta: il condizionale controfattuale, il dispositivo, la
decodifica, la doppia codifica.
Sarà questo il motivo per cui di Eco, di
cui editano anche i ritagli, queste “Confessioni” non si pubblicano in
italiano?
Umberto Eco, Confessions d’un jeune romancier, Livre de Poche, pp. 216 € 6,60
Confessions of a young novelist, Harvard University Press, pp. 231, ril., € 17,44
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