Eco fa il professore di se stesso. Con
la consueta verve – e con un po’ di
furbizia: è stato come rieditare nel 1983 il già milionario “Nome della rosa”.
Un’autocelebrazione anche – non si
direbbe, ma Eco si amava: “Un autore non deve fornre interpretazioni della
propria opera, altrimenti non avrebbe scritto un romanzo, che è una macchina
per generare interpretazioni”. Ma. A partire dal titolo, “un titolo è purtropo
già una chiave iterpretativa”, giù titoli e spiegazioni, “Adso da Melk”, “Abbazia
del delitto”, etc. Ma una lezione amabile, un’ora?, per 45 pagine: la
preterizione, il respiro, “chi parla”, il romanzo “come fatto cosmologco”, e “come
raccontare ilpassato”: il romance, il
romanzo di cappa e spada, il romanzo storico. E lo storico-sperimentale
naturamente, quello suo: Eco era reduce del Gruppo 63, in realtà ’68, del postmoderno
citazionista, con l’ironia, al fine ineluttabile dell’“avanguardia”. Il romance, per ora (per allora) è tutto: il passato e l’avvenire
- “molta f antasciena è romance”:
basta che la storia “non si svolga ora e qui, e dell’ora e del qui non parli”.
In realtà non una lezione, non s’impara
nulla, se non le nozioni eventualmente ignote: non un metodo di scrittura e
nememno una traccia. Ma un altro Eco, un fabulatore della letteratura.
Umberto Eco, Postilla a “Il nome della rosa”
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