Camilleri – Avalla immancabilmente, con blurb firmati, gli autori dei gialli e i gialli Sellerio. Li legge
tutti, a novant’anni, ammirevole. O ci mette solo la firma?
Giuseppe
Flavio – Lo scrittore dell’orgoglio ebraico
è – era – “il quinto evangelista”. Così lo voleva Arnaud d’Andilly, il
giansenista, figlio di Antoine Arnauld, il “Grande Arnauld” capofila del giansenismo,
fratello della badessa do Port-Royal Angélique Arnauld, consigliere di Maria
dei Medici, che ne tradusse le “Antichità giudaiche” nel Seicento Un rinnegato,
alla fede e alla patria. E all’origine della brutta fama che ha circondato gli
ebrei in molti luoghi della cristianità e anche delle lettere, come infidi, d
furbo opportunismo.
Conosciuto dai posteri come Giuseppe
Flavio, era nato Giuseppe ben Mattia. Un ebreo aristocratico, di una grande
famiglia sacerdotale, ragazzo prodigio degli studi religiosi, a sedici anni
aveva completato un excursus delle sette di Giudea, alla stregua di scuole
filosofiche. Culminando la sua formazione religiosa con un soggiorno nel deserto.
Ma non era un mistico, era un uomo di potere ambizioso, con una fortissima coscienza di classe, e il gusto
dell’intrigo, col quale si teneva in equilibrio. Grazie a lui, alla sua
raccolta di “Antichità giudaiche” e alla voluminosa “Guerra giudaica”, dopo la
caduta di Gerusalemme, la storia ebraica nel primo secolo è la meglio conosciuta
dopo quella di Roma – compresi Gesù detto “il Cristo” e suo fratello Giacomo.
Legato agli imperatori Vespasiano e Tito,
che erano stati governatori di Israele, e artefici della distruzione, era noto a Roma come Tito Flavio Giuseppe,
avendo preso il nome dei suoi protettori romani. Da prigioniero di guerra divenne
una sorta di commissario governativo agli affari ebraici, un piccolo Eichmann, distaccato
presso Vespasiano e poi presso Tito, generalissimi per l’Oriente. In una col
reuccio israeliano Agrippa e con la di lui sorella Berenice, che venne messa –
e si mise volentieri – nel letto di Tito. Due collaborazionisti, ma molto
dignitosi, senza vantaggi personali, che in realtà si sacrificavano per alleviare
le pene al popolo ebraico.
Anche Giuseppe si pose a mediatore col
generalissimo Tito, per la salvezza degli ebrei che si fossero arresi. Ma Tito fu
richiesto dal padre Vespasiano di meritarsi la successione con una grande
vittoria sul campo, e allora, malgrado l’amore di Berenice e le promesse a
Giuseppe, fece incendiare e distruggere il Tempio e ogni altro simulacro
ebraico. Giuseppe Flavio lo assolve, dicendo che aveva ordinato una strage
moderata. Ma donne e bambini bruciarono nel Tempio, dove si erano rifugiati, e
centinaia di migliaia di ebrei, ribelli e non, e anche di pellegrini innocui
furono uccisi, e altrettanti – cioè un gran numero – rinchiusi in campi di
concentramento per essere venduti a mano a mano come schiavi, o tenuti in ceppi
per onorare il trionfo del generalissimo di ritorno a Roma. Poi Tito fece
radere al suolo Gerusalemme, abbattere le mura, radere al suolo quello che restava
del Tempio, e perfino rompere le strade a metà, per snidare eventuali cecchini nascosti
nei cunicoli di scolo. Dice Giuseppe Flavio serafico: “La ribellione ha distrutto
al città, e Roma distrugge la ribellione”.
Ne “La guerra giudaica” Giuseppe Flavio
racconta – ala terza persona, come Mennea: Giuseppe dice, Giuseppe fa - che era
capo di un manipolo d’insorti. Una quarantina di ebrei in fuga dalla legione di
Tito, con cui si era rifugiato in una caverna di montagna nella zona di
Jotapata. Lui è per la resa onorevole, i suoi compagni per la resistenza a oltranza.
Ma l’impresa è disperata, e i compagni decidono che è meglio uccidersi,
piuttosto che cadere vivi nelle mani dei romani. Bene, dice Giuseppe. Ma
piuttosto che uccidersi singolarmente, tanto vale tagliarsi la gola
reciprocamente, tirando a sorte. E fa in modo di essere l’ultimo, naturalmente
favorito dalla sorte – il trucco è diventato un problema di matematica,
chiamato il “problema di Giuseppe” o la “permutazione di Giuseppe”. Dopodiché
esce dalla grotta con le braccia alzate.
Lavoro – Non
ha buona fama tra gli intellettuali. Per questo è fallito il ‘48, la
rivoluzione che proclamò il diritto al lavoro. Hitler l’ha sbugiardato,
assicurando “il lavoro rende liberi” a chi mandava a morte, e i campi di
sterminio chiamò campi di lavoro. “Prendi i miei desideri per la realtà, perché
io non credo nella realtà dei miei desideri”, hanno scritto a Parigi sull’Odéon
nel maggio 1968, checché voglia dire. Il Sessantotto sarebbe stato la vittoria
del proletario, che è, Stirner lo spiega nell’“Unico”, chi che non ha nulla da
perdere: il cavaliere d’industria anzitutto, e poi puttane, ladri, briganti,
bari, assassini, i miserabili, i frivoli – i cavalieri d’industria erano già nel “Buscòn”
di Quevedo una società di birbanti che venera l’Industria.
Lingua
– Gli scrittori che cambiano lingua sono
soprattutto donne: Edith Bruck,
Helga Schneider, Ornela Vorpsi, Helena Janeczek, Talye Selasi, Helene
Paraskeva, Christiana de Caldars Brito, Jumpha Lahiri. Ce ne sono anche di
italiane che hanno scelto di scrivere in un’altra lingua: Tiziana Rinaldi
Castro e Francesca Marciano, che lavorano molto per il cinema e hanno scelto
l’inglese, Gilda Piersanti il francese, e una metà della coppia Monaldi &
Sorti, che vivono a Vienna.
Tiziana Rinaldi Castro e Jumpha Lahiri, in
colloquio su “la Repubblica” sul cambiamento di lingua, lo fanno rimontare alla
separazione dalla madre: la madrelingua come fosse la madre naturale.
Ozio –
Potrebbe essere la salvezza, posto che “il lavoro non si trova”? Il marxista
Labriola l’ha previsto: l’uomo del futuro sarà un genio felice e pigro. E
l’infaticabile Trockij. Lo auspica il teutone Lessing: “Oziamo in tutto,
eccetto che per amare e bere, eccetto che per oziare”. Lafargue, il genero di
Marx, l’aveva stabilito: “L’ozio è indipendenza e fierezza”. È legge
fondamentale dell’universo einsteiniano.
Psicoanalisi – Sterilizza la
creatività, o la stimola? Walter Benjamin dice che la sterilizza, scrivendo a
Horkheimer il 23 marzo 1940: “È poco probabile che un uomo che sia stato spinto
a censire tanto scrupolosamente le sue riserve psichiche possa mantenere la
speranza di opere future”.
Vecchiaia – Una ragione per eliminare i vecchi c’è,
spiega Propp, l’analista delle fiabe: “Tra l’antichissima popolazione di
Sardegna, i sardi o sardoni, vigeva l’uso di uccidere i vecchi. E mentre
uccidevano i vecchi, ridevano sonori”.
È
una commistione: a Creta, alle origini dell’Occidente, una statua di bronzo fu
donata, di nome Telo, che ogni giorno faceva il giro dell’isola, e se
incontrava un nemico fenicio lo arroventava abbracciandolo ridendo. La risata
passò in Sardegna quando Telo e i cretesi, fonditori di metallo, si
trasferirono nell’isola ricca di miniere – via Sardi di Libia, lì vicino?
letterautore@antiit.eu
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