Celebrazione
fredda dell’11 settembre. Come se Obama avesse abbandonato il Medio Oriente, o
gli Stati Uniti. Che ne sono stati e sono la potenza condizionante.
Obama
non ha chiuso i due conflitti, in Afghanistan e in Irak, come aveva promesso, e
ne ha aperti altri due, in Libia e in Siria. Non ha distrutto Al Qaeda, malgrado
la morte di Osama bin Laden, e non ha bloccato e non sconfigge l’Is, benché sia
indifendibile presso le stesse masse arabe, a differenza della formazione di
bin Laden. Non ha praticamente rapporti con Israele. È insoddisfatto e distante
sia dalla dinastia saudita, che ha fomentato il fondamentalismo sunnita, sia
dal regime egiziano di Al Sisi, che della Fratellanza mussulmana filosaudita è
il giustiziere.
Tutto
lascia supporre che la gestione disattenta e controproducente del Medio Oriente
sia dovuto a Obama. Sulla questione palestinese era partito dalle posizioni
arabe. Vicino a Chicago agli intellettuali palestinesi, Edward Said, Alì
Abunimah, il cofondatore dell’Intifada Elettronica, fautora di uno Stato Unito
israelo-palestinese, dello storico Rashid Khalidi. Aveva esordito alla
presidenza chiamando tra i primi il presidente palestinese Mahmud Abbas – con sorpresa
di quest’ultimo. Il giorno dopo nominando un Inviato Speciale per la Pace nel
Medio Oriente, il senatore George Mitchell, autore di un rapporto che chiedeva
il congelamento immediato delle nuove colonie israeliane in Cisgiordania e a
Gerusalemme. Quattro mesi dopo, nel corso della visita a Washington di Abbas,
Obama ne f ce una proposta ufficiale. Subito dopo partì in vista nel Medio Oriente,
ma evitò Israele, e al Cairo in un grande discorso disse. “La situazione per il
popolo palestinese è intollerabile”. Ma al ritorno si adoperò per fare accettare
ai palestinesi i nuovi insediamenti israeliani. Senza per questo riprendere i
rapporti col governo di Israele.
Obama
non è però per questo sotto critica negli Usa: c’è come un consenso su un disimpegno.
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