“Oggi si è golosi, e ci se ne vanta. Al
tempo di B. (Stendhal) un uomo ambiva soprattutto all’energia e al coraggio”.
La storia è pigra, si può dire di oggi come del 1850. Quando Merimée celebrò
Stendhal. Non è la sola “novità”. Stendhal, dice Mérimée, era certo di essere
spiato. Anche lui, a Civitavecchia, vice-console, ultima ruota del carro, se
non era dismessa in garage: per questo firmava le lettere con nomi inventati,
le datava da Abeille invece che da Civitavecchia,
iniziava con frasi peregrine (“ho ricevuto le vostre sete gregge. E le ho
immagazzinato in attesa dell’imbarco”), e si riferiva agli amici con “nomi di
battaglia”.
H.B. è Henry Beyle, “Stendhal”, di cui
Mérimée fu l’amico di una vita, compagno di pettegolezzi e scherzi. Il suo
ritratto dell’amico, scritto a otto anni dalla morte, e pubblicato per i soli
25 happy few, non è nel canone stendhaliano
– è uno dei motivi per cui Mérimée viene escluso da ogni canone? Scaraffia
nell’introduzione lo demolisce, come i tanti altri canonici prima di lui. E
invece questo “H.B.”, episodico e umorale, che lo stesso Scaraffia dota di note
succose (oltre che di una riedizione di “H.B.”, di cinque anni posteriore,
intitolata “Note e ricordi”, per il primo volume della corrispondenza di
Stendhal), è molto stendhaliano: non è fatto per piacere ai classificatori, e
anzi li disturba, ma Stendhal era uno irregolare, molto, tanto più per essere
un funzionario pubblico, di Napoleone come della Restaurazione. Sainte-Beuve,
venuto dopo, assicura che Stendhal era agitato dal timore di passare per
sciocco, ma non è vero: l’egotista non aveva, fortunatamente, faglie.
L’aneddoto della Pietragrua, sua amante
in titolo dal 1811 al 1815, che lo tradiva ogni giorno con un uomo diverso, uno
per giorno della settimana, non è possibile ma è “vero”, ed è un groviglio di
risate – compresa la malinconia (depressione) che a lungo, dopo la scoperta
del trucco, sopraffece lo scrittore, così si curava di dire. E non è in realtà
in urto col “Dell’amore”, e la famosa cristallizzazione, ciò che Mérimée ne
riferisce in fatto di donne: “B. mi è sempre sembrato convinto dell’idea, molto
diffusa sotto l’Impero, che una donna può sempre essere presa d’assalto, e che
è un dovere per ogni uomo provarci: «Possedetela; è quel che le dovete per
prima cosa», mi diceva, quando gli parlavo di una donna di cui ero invaghito”.
E non è finita: “Una sera, a Roma, mi raccontò che la contessa gli aveva dato
del voi invece che del lei, e mi chiese se non avrebbe dovuto
violentarla”. Ma era uno scherzo di “vecchi ragazzi”: “Lo incitai vivamente a
farlo”, conclude Mérimée. La contessa è Giulia Prosperi Buzi, sposa allora
ventenne del maturo conte Filippo Cini, uno dei grandi amici di Stendhal: fu la
sua fiamma negli anni romani, 1820-1830, dello scrittore, che la chiamava “contessa
Sandre” (Cini >Cinis, cioè
cenere,>Cendre, francese per
cenere,>Sandre alla romana), o anche Earline, ma senza fortuna, assicura
Massimo Colesanti – che opina invece per un rapporto più strtetto della giovane
contessa con Filippo Caetani, l’altro grande amico romano di Stendhal, conte
anche lui e acquarellista, che sarebbe stato il vero padre di alcuni dei figli
della coppia Cini.
Mérimée non solo è devoto dell’amico,
infine riconosciuto grande scrittore - dopo morto: erano in tre al funerale. Ma
ne condivide gli umori e il linguaggio, e la presa diretta. Si raccontavano le
peggiori turpitudini, e non si facevano illusioni, né su di sé né sulla
Francia. Merimée l’aveva incontrato a 18 anni, quando il futuro Stendhal ne
aveva 28. E da allora erano stati complici. Non tanto di avventure, ma di battute,
invenzioni, confessioni. Mérimée fu il beneficiario di uno dei 24 testamenti di
Stendhal. Che apostrofa sempre “Beyle”, militarescamente. È vero che le loro
conversazioni erano da caserma, “di donne” prevalentemente, ma che gusto c’è a
negarlo?
Le lettere partono da Swift impotente, e
per questo soprattutto interessato a smosciare i suoi lettori: è tutta qui la
cattiveria del ritrato di Delia che finisce con “But Delia pisses and Delia shits”. Questo è il tono, e questi
saranno, più o meno, gli argomenti della corrispondenza. Altra lettera illustre
è quella in cui Merimée protesta con l’amico: “Vi
prego, lasciatemi scrivere couillons e non cuyons come vuole il
vocabolario: deriva da couille, come lucus a non lucendo”.
Che potrebbe allora essere l’una o l’altra delle parti basse, o entrambe, il lucus
e il non lucendo. Ma non è ingegnosa, la luce che viene da posti
dove non prende mai il sole - Heidegger ci argomenterà sopra a lungo?
Le lettere di Stendhal sono perdute, un po’
per la mania di Mérimée di non tenere “roba inutile” e un po’ per l’incendio
che nel 1871 ne distrusse gli arredi e i libri. Ma una resta, conservata per
altri versi, e chiude la raccolta, in cui Stendhal descrive il babilanismo, termine italiano, dice, per
impotenza. Babilan e babilanisme sono misteriose “parole
italiane”, a detta di Stendhal e Mérimée, qualcosa che ha a che fare con l’impotenza
dei mariti. Ne avevano la fissazione, da sodali segaioli – è tutta qui la forza
che condividono di creare donne mirifiche. E tuttavia si lega la parola, tra
Babele, Babilonia e babil, o eccesso
di suoni infantili, a Milano, al suo san Babila che non esiste. Anche perché il
concetto di potenza, o impotenza, non si esaurisce nel sesso. Almeno finché si
è in vita. Nel mezzo , il consiglio è di “fottersene
del colera”: l’importante è “non fornicare dopo pranzo e tenere il ventre al
caldo”.
Prosper Mérimée, H.B.
Lettres
libres à Stendhal, suivi de H.B., Arléa, pp. 115 € 11,69
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