martedì 13 settembre 2016

Parliamo tanto di donne, f.to Stendhal

“Oggi si è golosi, e ci se ne vanta. Al tempo di B. (Stendhal) un uomo ambiva soprattutto all’energia e al coraggio”. La storia è pigra, si può dire di oggi come del 1850. Quando Merimée celebrò Stendhal. Non è la sola “novità”. Stendhal, dice Mérimée, era certo di essere spiato. Anche lui, a Civitavecchia, vice-console, ultima ruota del carro, se non era dismessa in garage: per questo firmava le lettere con nomi inventati, le datava da Abeille invece che da Civitavecchia, iniziava con frasi peregrine (“ho ricevuto le vostre sete gregge. E le ho immagazzinato in attesa dell’imbarco”), e si riferiva agli amici con “nomi di battaglia”.
H.B. è Henry Beyle, “Stendhal”, di cui Mérimée fu l’amico di una vita, compagno di pettegolezzi e scherzi. Il suo ritratto dell’amico, scritto a otto anni dalla morte, e pubblicato per i soli 25 happy few, non è nel canone stendhaliano – è uno dei motivi per cui Mérimée viene escluso da ogni canone? Scaraffia nell’introduzione lo demolisce, come i tanti altri canonici prima di lui. E invece questo “H.B.”, episodico e umorale, che lo stesso Scaraffia dota di note succose (oltre che di una riedizione di “H.B.”, di cinque anni posteriore, intitolata “Note e ricordi”, per il primo volume della corrispondenza di Stendhal), è molto stendhaliano: non è fatto per piacere ai classificatori, e anzi li disturba, ma Stendhal era uno irregolare, molto, tanto più per essere un funzionario pubblico, di Napoleone come della Restaurazione. Sainte-Beuve, venuto dopo, assicura che Stendhal era agitato dal timore di passare per sciocco, ma non è vero: l’egotista non aveva, fortunatamente, faglie.
L’aneddoto della Pietragrua, sua amante in titolo dal 1811 al 1815, che lo tradiva ogni giorno con un uomo diverso, uno per giorno della settimana, non è possibile ma è “vero”, ed è un groviglio di risate – compresa la malinconia (depressione) che a lungo, dopo la scoperta del trucco, sopraffece lo scrittore, così si curava di dire. E non è in realtà in urto col “Dell’amore”, e la famosa cristallizzazione, ciò che Mérimée ne riferisce in fatto di donne: “B. mi è sempre sembrato convinto dell’idea, molto diffusa sotto l’Impero, che una donna può sempre essere presa d’assalto, e che è un dovere per ogni uomo provarci: «Possedetela; è quel che le dovete per prima cosa», mi diceva, quando gli parlavo di una donna di cui ero invaghito”. E non è finita: “Una sera, a Roma, mi raccontò che la contessa gli aveva dato del voi invece che del lei, e mi chiese se non avrebbe dovuto violentarla”. Ma era uno scherzo di “vecchi ragazzi”: “Lo incitai vivamente a farlo”, conclude Mérimée. La contessa è Giulia Prosperi Buzi, sposa allora ventenne del maturo conte Filippo Cini, uno dei grandi amici di Stendhal: fu la sua fiamma negli anni romani, 1820-1830, dello scrittore, che la chiamava “contessa Sandre” (Cini >Cinis, cioè cenere,>Cendre, francese per cenere,>Sandre alla romana), o anche Earline, ma senza fortuna, assicura Massimo Colesanti – che opina invece per un rapporto più strtetto della giovane contessa con Filippo Caetani, l’altro grande amico romano di Stendhal, conte anche lui e acquarellista, che sarebbe stato il vero padre di alcuni dei figli della coppia Cini.
Mérimée non solo è devoto dell’amico, infine riconosciuto grande scrittore - dopo morto: erano in tre al funerale. Ma ne condivide gli umori e il linguaggio, e la presa diretta. Si raccontavano le peggiori turpitudini, e non si facevano illusioni, né su di sé né sulla Francia. Merimée l’aveva incontrato a 18 anni, quando il futuro Stendhal ne aveva 28. E da allora erano stati complici. Non tanto di avventure, ma di battute, invenzioni, confessioni. Mérimée fu il beneficiario di uno dei 24 testamenti di Stendhal. Che apostrofa sempre “Beyle”, militarescamente. È vero che le loro conversazioni erano da caserma, “di donne” prevalentemente, ma che gusto c’è a negarlo?
Le lettere partono da Swift impotente, e per questo soprattutto interessato a smosciare i suoi lettori: è tutta qui la cattiveria del ritrato di Delia che finisce con “But Delia pisses and Delia shits”. Questo è il tono, e questi saranno, più o meno, gli argomenti della corrispondenza. Altra lettera illustre è quella in cui Merimée protesta con l’amico: “Vi prego, lasciatemi scrivere couillons e non cuyons come vuole il vocabolario: deriva da couille, come lucus a non lucendo”. Che potrebbe allora essere l’una o l’altra delle parti basse, o entrambe, il lucus e il non lucendo. Ma non è ingegnosa, la luce che viene da posti dove non prende mai il sole - Heidegger ci argomenterà sopra a lungo?   
Le lettere di Stendhal sono perdute, un po’ per la mania di Mérimée di non tenere “roba inutile” e un po’ per l’incendio che nel 1871 ne distrusse gli arredi e i libri. Ma una resta, conservata per altri versi, e chiude la raccolta, in cui Stendhal descrive il babilanismo, termine italiano, dice, per impotenza. Babilan e babilanisme sono misteriose “parole italiane”, a detta di Stendhal e Mérimée, qualcosa che ha a che fare con l’impotenza dei mariti. Ne avevano la fissazione, da sodali segaioli – è tutta qui la forza che condividono di creare donne mirifiche. E tuttavia si lega la parola, tra Babele, Babilonia e babil, o eccesso di suoni infantili, a Milano, al suo san Babila che non esiste. Anche perché il concetto di potenza, o impotenza, non si esaurisce nel sesso. Almeno finché si è in vita. Nel mezzo , il consiglio è di “fottersene del colera”: l’importante è “non fornicare dopo pranzo e tenere il ventre al caldo”. 
Prosper Mérimée, H.B.
Lettres libres à Stendhal, suivi de H.B., Arléa, pp. 115 € 11,69

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