“U sonu”, o “sonu a ballu”, sta per tarantella. Per la tarantella
dell’Aspromonte, del sud dell’Aspromonte, dell’area grecanica. Castagna parte
da una curiosa inversione, di un ballo sicuramente popolare e di gruppo,
sociale (ritmo, stumenti, ruota, maestro da ballo, mimica e significati del
ballo), ingentilito nel primo Ottocento nella musica colta e borghese, come
allora usava di tutti gli usi popolari, che sarebbe ritonato come ballo gentilizio,
finto popolare: “L'invenzone della tarantella” è il capitolo iniziale.
Il musicologo sostiene l’assurdo: che la
tarantella sia quella di Chopin, Rossini, Liszt, Bizet, Mendelssohn, e i tanti
altri compositori del filone romantico, fino a Ciaikovskij - dopo le
“pastorellerie”? Dopodiché dice inventata la tarantella come ballo popolare. A
opera dei gruppi folkloristici in voga tra le due guerre. E del fascismo? Ma
certo, Castagna non se lo lascia scappare. E dunque la tarantella è ballo alto,
e fascista. E di più quella aspromontana, un posto che non ha né nobiltà né
musica colta, e i cui intellettuali ne rifuggivano fino a poco fa con
disprezzo.
Subito dopo peraltro richiamando le
“pastorellerie” sei-settecentesche, col Re Sole che si fa ritrarre con la cornamusa
in mano: la musica colta ha le mode, come i potenti. E facendo differenza tra
la Scozia, dove la cornamusa diventa “simbolo nazionale”, e il Sud Italia, dove
resta strumento di pastori e cafoni – così come l’organetto, e il tamburello, e
la chitarra battente.
Passato il furore iconoclasta, il “suono”
però si ricompone: è un monumento che Castaga erige ai suonatori di Cardeto,
alla zampogna. Alla loro musica coreutica, sonu
a ballu: se non si balla, “si perdi u
sonu”. A un sentimento e un bisogno che vengono da lontano. La danza,
“deposito sedimentato”, e quindi il “sonu
a ballu”, insomma la tarantella, ha “una spiccata caratterizzazione in senso
rituale”.
Il ballo (“u sonu”) in piazza, col
maestro da ballo, la ruota, la coppia, che si forma e si riforma, a intervalli
brevi, di un minuto, un minuto e mezzo, per consentire la partecipazione
singola di tutti i convenuti, non è uno spettacolo. È un rito. Civile, in casa,
per una ricorrenza, sia pure un invito agli amici – Castagna attesta che a
Cardeto era costume fino a qualche anno fa, e tuttora non infrequente, essere
invitati a ballare dopo il pranzo di cui si è stati ospiti. È una danza rituale
nel senso religioso, davanti al tempio: “Fra gli elementi di arcaicità che
legano u sonu dell’Aspromonte
sincronicamente ad altre danze del Sud Italia e diacronicamente alle danze
sacre dell’antichità greco-romana vi è l’aspetto devozionale. Infatti la rota
si carica di ulteriore senso sacralizzante nel caso del ballo votivo. Si balla
alle principali feste religiose, si balla fuori dai santuari”.
Si può aggiungere per esperienza che a
Polsi si ballava anche dentro il tempio, almeno fino a qualche anno fa, allo
stesso modo come si ballava nel recinto sacro nelle cerimonie religiose
dell’antica Grecia – una persistenza come quella della vittima, una giovenca, da
immolare, infiorettata di nastri. E che si ballava in campagna, al suono della
zampogna, l’inverno, finita alle quatttro la giornata di lavoro.
Con un nutrito inserto fotografico, di
contadini e montanari, suonatori e danzatori.
Ettore Castagna, U sonu. La danza nella Calabria Greca, Squilibri, pp. 181, ill.,
con cd € 18
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