“Quasi
ho pudore a scrivere poesia\ come fosse un lusso proibito\ ormai, alla mia
vita.\ Ma ancora in me\ un ragazzino canta\ seppure esperto di fatiche e
lotte”. Danio Dolci, chi era costui? Un poeta che si era fatto filantropo e
combattente, fuori posto nell’Italia piatta del Millennio, dei social e i
talk-show. Un santo laico dimenticato nell’Italia dei santi. Un poeta: “Son sempre
stato poeta” - che Mario Luzi pregiava. Silvio
Perrella lo recupera.
Architetto e agitatore politico, Dolci
fu in Sicilia dal 1952 alla morte nel 1997, animatore sociale e pedagogo. Uno
studioso e un filantropo dei piccoli e afflitti, poveri e non, relitti dei riti
morti del sociale. Per l’occhio penetrante, inconciliabile, del poeta. La
poesia in senso proprio continuando a esercitare come vizio privato. Sui temi
dapprima temperamentali, della natura idilliaca: le stagioni, le notti e i
giorni, la vita che muore, che rinasce, il mare sempre, la libertà degli
uccelli, la giovinezza, correre sulla spiaggia, fantasticare, il limone lunare
– “una pianta vera, chiamata così dai contadini perché a ogni luna infiora e
infrutta”. Poi il quotidiano prende il sopravvento, l‘ananke politica, di violenza
perlopiù e squallore: sbirri ovunque, anche nei sogni, raid delle Forze
dell’Ordine, aule di giustizia sorde, dove per fortuna hano totlo il crocefisso
e la scritta ironica “la giustizia è uguale per tutti”, mafiosi diventati
politici. E il lavoro sul campo, di agitatore e educatore, semplice e arduo,
contrastato da “tutti”, eccetto i poveri inermi. Rassegnato a volte – “L’alba
diventa un’ora\ che stenti a riconoscere nel grigio\ di ogni altra ora”.
Gnomico: “Sono eguali due rondini\ se non sei rondine:\ due occhi eguali non esistono.\
Due alberi eguali non esistono,\ fiori eguali, due petali\ - due canti eguali,\
due toni.\ Due albe eguali non esistono,\ tramonti eguali, due stelle,\ ore
eguali,\ attimi”. Sorpreso. Ma sempre, al fondo, giovanile, entusiasta se non spensierato¨”Una
riunione è buona se alla fine\ uno non è più lui\ ed è più lui di prima”..
Danilo Dolci non fu molto amato, specie in Sicilia, dove pure con la sua pedagogia della interpeneterazione si può dire rinato (sposato a una vedova con cinque figli, ne ha avuti altri cinque), e alla
fine restò isolato. Ma i suoi temi cinquant’anni fa sono quelli di oggi. Scuole
crepate, dove ci sono. L’agricoltura stordita – “SI COMPRA CARO, SI VENDE PER
NIENTE”. I tradimenti, troppi. E sbirri ovunque, non per la buona causa – “Non
so più contare le denunce\ e i processi ridicoli che arrivano\ ma pericolosi come il veleno”..
Resistette. ”Nel mio bisogno di poesia,
gli uomini,\ la terra, l’acqua, sono diventati\ le mie parole”. L’impegno per
la pace, che condivise con Capitini, lo portò a Hiroshima – e alla moderna
Auschwitz dei Gastarbeier in Germania, dove il giaciglio nella baracca
di legno veniva fatto pagare dall’impresa, orario di lavoro 5\18. Ma finì deluso,
nei limiti di questa raccolta, incattivito, la sensazione soffrendo di scavare
sabbia – altro non gli si chiede più che l’ennesimo digiuno di protesta, per la
secna: “grumo\ vagante di galassia”, un grumo triestino, da mare di scoglio, immerso nella calida spugnosa Sicilia, sommerso.
Molte le cose viste e i personaggi
frequentati. Gente umile del luogo per lo più, di distinta dignità. I cooperanti volontari, giovani e meno giovani,
specie dal mondo tedesco. Alcuni nomi di scorcio: Capitini, Tono (Zancanaro?),
Ernesto (Treccani?), il presidente eletto Leone, “un furbesco patrono dei
amfiosi”. E Sciascia probabilmente, non nominato, non simpatetico – muto
all’incontro: “Poiché stigmatizzava sulla stampa\ il non prendere partito,\
sono andato a trovarlo nella sua\ città, per domandargli notizie\ su un mafioso
locale divenuto\ politico potente:\ e pure se involpito nella storia della sua
terra,\ pure se aveva pubblicato lustri\ romanzi sulla mafia -\ un fatto, un
solo dato, un accennare\ non gli è sortito dalla bocca triste”. La raccolta è nel
complesso di poesia civile, o politica, sulla deriva di Pasolini, di prose
infiammate – quattro dei cinque album che la compongono, “Voci di una
galassia”, “Il limone lunare”, “Non sentite l’odore del fumo?”, “Sopra questo
frammento di galassia” (il quinto è un ripescaggio di gioventù, “Ricercari”).
Nato nel retroterra giuliano da mare
slovena e padre siciliano – allora si poteva, 1922 – Dolci è stato in Sicilia,
dove poi ha sposato una vedova con cinque figli e ne ha avuti altri cinque, l’inventore
del digiuno pubblico di massa, dello sciopero alla rovescia - farsi per esempio
una strada necessaria - per il quale finì in carcere e all’esibizione in manette,
e della prima radio privata nel 1971, Radio Partinico Libera. Molto attivo anche
dopo il terremoto del Belice, 1968.
Negli ultimi tre decenni del Novecento fu
soprattutto impegnato nella pedagogia della maieutica, l’approccio innovativo
con cui si era presentato in Sicilia vent’anni prima: la trasmissione culturale
come interrelazione, un dare e avere costante, con la cultura e le competenze
locali, tradizionali, personali. Come mezzo migliore sia all’alfabetizzazione
senza ritorno, sia alla “capacitazione” (empowerment)
degli individui, specie degli “esclusi”. Ma fu più noto come autore di denunce
famose – quella di Bernardo Mattarella gli valse una condanna (è il nome su cui
l’innominato Sciascia rimase muto?). A cominciare dall’inchiesta su Palma di
Montechiaro nel 1960, a trenta km. da Agrigento, scena del “Gattopardo” e feudo
inerte di Tomasi di Lampedusa, l’autore del romanzo, dove la grande maggioranza
dei 20 mila abitanti vivevano in casupole senza luce, accatastati, con gli
animali doestici, il novanta per cento senza acqua corrente e l’86 per cento
senza gabinetto. Era ieri.
Danilo Dolci, Poema umano, Mesogea, pp. 269 € 16
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