Sono gli
atti di un Convegno tenuto a New York da tre università, la Rutgers, la Fordham
e la State University di New York. Trent’anni dopo la morte dello scrittorre veneto
trapiantato in Calabria, nel 1978. Un convegno rimasto anch’esso senza eco, e
quindi come nuovo.
Berto è uno
degli scrittori del secondo Novecento che più reggono al tempo, ma non in
Italia Si dice perché era fascista, ma lo fu in gioventù, come tutti. Fu semmai
autore di solidi romanzi marxisti, quele nel 1961 “Il brigante”. No, è che la
filologia è morta in Italia probabiolmente col 1989, col “patrimonio delle
certezze”. In realtà di Berto dava e dà fastidio la libertà intellettuale, fuori
dai salotti e le camarille letterarie più che dai partiti o la politica: non c’è
nulla in lui che si debba censurare, ma il giusto ogoglio lo ha isolato e lo
isola. Essere congtrocorrentye si può in Italia ma alla maniera di Malaparte,
per parlar male delal corrente di cui si è stai parte.
La
celebrazione americana mette l’accento sul fatto che Berto nacque scrittore
durante la prigionia, 1943-45, a Hereford nel Texas. Dove scrisse racconti di guerra
e di prigionia, e due romanzi. Il secondo dei quali, “La perduta gente”,
pubblicato nel 1947 da Longanesi col titolo “Il cielo è rosso”, lo promosse
scrittore a pieno titolo – ma era la sua ambizione: prima della prigionia aveva
pubblicato a settembre del 1940 sul “Gazzettino sera” un lungo racconto in quattro
puntate della sua guerra in Africa (è stato ripreso postumo come “La colonna
Feletti”).
Giuseppe Berto: thirty years later, Marsilio, pp. 94 € 12
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