Un diario di Malaparte a Parigi dopo la
guerra, nel 1947-1948, non ritoccato. Scritto in francese, con alcune parti in
italiano, qui tradotte da Gabrielle Cabrini. Pubblicato postumo nel 1967, e
ancora inedito in Italia. “È il ritorno a Parigi dopo quattordici anni di
assenza, è la scoperta di una nuova Francia”, è lo schizzo di una prefazione.
E subito è Malaparte. In poche righe
vede e fa vedere la Grosse Bertha, il supercannone tedesco, all’opera su Parigi
nel giugno del 1918, dove a venti anni, volontario in Francia, “nei boschi
dell’Argonne e nelle trincee di Champagne”, è in licenza premio. E chi, se non
lui, incontra ora di sera a Parigi, in cerca di un taxi introvabile, madame Dorange
con la sua carrozza a cavalli, famosa modella di un famoso ritratto di Marie
Laurencin quarant’anni prima, che lo porta a destinazione conversando
amabilmente con lui a cassetta. Lo
stesso percorso che nel 1915, volontario a diciassette anni, aveva fatto a
piedi guidato da “un giovanissimo ufficiale inglese”. Che si rivela il principe
di Galles, il futuro duca di Windsor…
Il favoloso dell’incredibile. Nel genere
gossip, con namedropping, irresistibile. Ma sempre di acuto intuito per la
storia e la società. Subito dopo il duca, fa sorgere, a pranzo
dall’ambasciatore Quaroni, che vi è stato confinato durante la guerra,
l’Afghanistan, dove non c’è mai stato, ma è ben più vivo delle fantacronache
che ci ingombrano da quindici ormai giornalmente. O più in là l’Ucraina in
poche righe, che invece conosce bene, il Far West orientale, questo immenso
impero polacco perduto, questa terra vaga al di là dl Dniepr, che dà della
grandzza una grandezza patetica”.
Profetico, come gli piaceva, il giusto.
La prefigurazione del Sessantotto ha in Sartre, “un brav’uomo”, il cui impegno
è mimare la classe operaia, con l’abbigliamento malconcio, la barba incolta, la
parlata asintattica – senza peraltro colpa del “sartrismo della gioventù”: “Mi sembra
eccessivo scomodare Kierkegaard, Jaspers, Heidegger, il concetto d’angoscia, d’esistenza,
per giustificare tutta una generazione di declassati, che non è pederasta, ma scimmiotta
la pederastia, che non è povera, ma scimmiotta la povertà, che non è bohème, ma scimmiotta la bohème, che non prova alcuna angoscia ma
scimmiotta l’angoscia, che ha paura del comunismo, ma affetta una certa simpatia
per il comunismo, che è contro il comunismo, ma proclama che non vuole essere anticomunista
a priori”. Un mimetismo non
opportunista, effetto del “bisogno inconscio di somigliare all’elemento base
della società moderna: la massa”.
Più sconvolgente la premonizione del ciclo
politico che viviamo, all’insegna del grilismo: “Anche gli operai, un giorno,
saranno padroneggiati dai piccolo borghesi, Io so quello che ci aspetta”. Anche
senza i social. Saranno sopraffatti dalla folla dei piccolo borghesi, “sporca,
stanca, vestita pretenziosamente, frettolosa, egoista, vendicativa, cattiva, fredda,
inattaccabile”: è “la stessa folla che pretende di costruire una società nuova”.
Nell’attesa, c’è la nuova vecchia classe politica, in Francia come in Italia,
bolsa, incapace, ipocrita – settaria, ingiusta.
Ma più di tutto lo interessano le arti,
e le cose dello spirito. Il figurativismo del Cristo in Francia, invasivo. Il
parallelo, ennesimo ma convincente, tra il popolare Corneille (ragione) e il poco
amato Racine (sentimento). Il sacro dell’antichità legato alla feracità, delle
messi, dell’ulivo, della vigna. E perfino l’antifascismo del fascista Pirandello.
Malaparte è critico culturale colto,
poliglotta, cosmopolita, informato, ottimo comparatista. Lungamente qui
argomenta, sa argomentare oltre che rappresentarle vivacemente, le
insopportabili generalizzazioni dei caratteri nazionali. Un “Maledetti (o
Benedetti) Francesi”, la prova generale delle cronachette umorali che poi farà
dei Toscani, e degli Italiani. Altro tema insorpassato è l’equivoco in cui
l’Europa ha posto da fine ‘800 la cultura tedesca, fingendo di conoscerla,
mentre la banalizza. Specie in Francia. Con l’esempio di Valéry che prepara un
corso su Goethe - dice a Croce, che ne sapeva anche le virgole - e quindi
comincerà a leggerlo... C’è già Jünger, “Giardini e strade”, la “drôle de guerre” del 1940 vista da un
tedesco che non crede a quello che vede, la cui lettura consiglia ai francesi.
Con pezzi a ripetizione d’antologia.
Place de la Concorde, che si materializza in quattro pagine di delirio
malapartiano. Mauriac, algido e acido. Le farfalle nere dei ghiacciai alpini,
della Marmolada. Varie letture. Varie ministorie, fantasie alla scrivania:
“Storia del granchio”, “Storia della capinera” (“Una capinera molto snob…”). Il
presidente Doumergue che gli spiega nel 1923, all’Eliseo, che può offrigl solo
un vernut: “L’etichetta repubblicana mi obbliga alla volgarità”, i presidenti
eletti non sono sovrani, “siamo personaggi molto pallidi… rappresentiamo la
gente minuta, la storia ci sfugge”.
Dopo la celebrazione di Parigi
ritrovata, il diario fa in apertura un passo indietro: Malaparte deve vantare
ripetutamente i suoi meriti di antifascista. E non per l’esibizionismo
caratteriale. Arrestato undici volte in vent’anni, combattente con gli Alleati,
eccetera. Nonché le origini umili – che non sono vere, ma così ritiene di
doversele rappresentare: “Vissuto in famiglia operaia fino ai quindici anni,
con educazione proletaria”. Questo è il punto forse più interessante. È
ritornato a Parigi, la sua innamorata, malvisto dal governo francese, come un
collaborazionista. Un’Italia ne viene fuori isolata nel dopoguerra e in
sospetto, anche l’antifascismo. E non solo nell’altezzosa Francia.
Dice anche verità scomode per l’epoca.
Accomodante, e forse opportunista, ma sempre controcorrente. Come questa, in
italiano: “Quando, nel 1946, Paul Éluard”, il poeta comunista, “venne in Italia
e parlando in publico disse”, in francese: “«La poesia al servizio della
verità», il pubblico si mise a ridere; era quello che per più di vent’anni
avevamo sentito dalla bocca di Mussolini”. Si trascura troppo la storia vera.
Curzio Malaparte, Journal d’un étranger à Paris, Folio, pp. 353 € 8,70
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