lunedì 24 ottobre 2016

Il mondo com'è (280)

astolfo

Antifascismo – Malaparte, “Journal d’un étranger à Paris”, riesce ad argomentare l’antifascismo di Pirandello, che pure era fascista iscritto al partito e ammiratore di Mussolini, soprattutto da italiano che viveva molto e operava all’estero. Per l’autonomia assoluta che pretese nel suo lavoro, intransigente. È vero che non ebbe funerali pomposi in morte, o non li volle. E che Mussolini proibì la pubblicazione e l’esecuzione del suo testamento. È anche vero che le sue ultime opere non piacquero a Roma, a un pubblico indottrinato dal partito mussoliniano, mentre eccellevano a Parigi e in Germania, prima di Hitler.
La categoria in effetti è generica

Francesco – Il papa argentino, che ha sdoganato divorziati e omosessuali, scatena opposti estremismi. Zygmunt Baumann  e Michel Maffesoli riscoprono con lui la religione. Augé e Robert Harris immaginano grazie a lui un mondo senza Dio – moto migliore, dicono.

Identità Quella nazionale tanto più è forte quanto più è dura – esclusiva. La Francia, paese di forte immigrazione per un secolo e mezzo, per ovviare al declino demografico, e di rapida integrazione per gli immigrati, culturale e politica se non sociale, applica senza concessione e anche con durezza le sue leggi. L’identificazione dei suoi tanti immigrati con questa Francia arcigna è totale.  
L’opposto avviene nella tollerante, …eente, Italia. Ci sono un milione e duecentomila rumeni in Italia. Dove guadagnano, poco o molto che sia. Ma spendono solo in Germania: auto, elettrodomestici, arredamento, materiale edilizio, etc. Una tassa sulla residenza non è possibile, ma darsi un carattere sarebbe anche necessario, prima che conveniente.

Prescrizione – Non si dà solo in caso di colpa collettiva, ossia di crimine contro l’umanità. Che è un concetto recente, del processo di Norimberga, e non solidamente fondato in diritto – è un crimine in fase di elaborazione dottrinale. Si è provato ad applicare l’imprescrittibilità solo alla Germania nazista, i cui ultimi esponenti sono ora centenari o prossimi. E solo in Francia l’imprescrittibilità è stata discussa e votata, nel 1971, sempre in riferimento alla Germania nazista.
Nel dibattito in Francia sull’imprescrittibilità di distinse per violenza Jankélévitch, che solo quattro anni prima, nel 1967, aveva filosofato il perdono, “Perdonare”. In una serie di interventi, ripresi postumi nel 1986 sotto il titolo “L’imprescriptibilité” (tradotto parzialmente, col titolo “Perdonare?”, desunto da uno dei saggi), nel dibattito del 1971 argomentò che il perdono non è applicabile ai crimini nazisti. Anzi, con eccesso polemico, disse non applicabile alla Germania: “Il perdono è morto nei campi della morte”.
L’imprescrittibilità insomma, è stata ridotta, anche nel caso della Germania, al risentimento. Nella tradizione, sullo sfondo, del “tedesco lurco”. Crudele ora per innatismo, per istinto e pratica incisi nel dna. Ora per cultura politica. Ora per eredità religiosa, del luterano “Io e il mio Dio”. Con annesse insensibilità, pignoleria, mancanza di misura. Una doxa molto comune. Ma il delitto contro l’umanità fu per la prima volta argomentato in Germania, in una col processo di Norimberga, dal filosofo Jaspers.
Il dibattito in Francia fu provocato dalla discussione che si era fatta in Germania sulla opportunità di allungare i termini della prescrizione per i delitti di guerra. Che si concluse con la riapertura dei termini ancora per un decennio, fino al 1979. Seguendo il magistero del dottor Kiesinger, buon nazista e buon democristiano, secondo il quale c’è un crimine maggiore e uno minore, un milite SS non è Himmler. Fatto salvo il diritto di ognuno a proteggersi in tribunale – le condanne si contano.
Il concetto di colpa collettiva, d’altra parte, finisce per essere assolutorio: è una “colpa di sistema”, di ordinamento, come i criminali di guerra dicevano all’epoca e hanno continuato a dire.  Diverso il concetto di “colpa metafisica” elaborato da Jaspers, in aggiunta alla colpa giuridica, a quella politica e a quella morale. Senza punizione possibile però, se non in autocoscienza: “Che noi siamo ancora vivi, questa è la nostra colpa”.  .

Resistenza – Ha una filosofia, o psicologia, triste, secondo Malaparte (“Journal d’un étranger à Paris”, il diario degli anni 1947-1948), che l’ha osservata a distanza, dallo Stato maggiore alleato presso il quale era ufficiale di collegamento dopo l’8 settembre. In “singolare contrasto” con la “psicologia ottimista dei collaborazionisti”, benché sconfitti e dichiarati colpevoli: “Bisogna rifletterci seriamente”.
Il Resistente tende a lamentarsi, a dire che le cose non sono come avrebbero dovuto essere. Malgrado la retorica, “la grande speculazione europea in fatto di resistenza” – e ciò che la mina - è “una speculazione della stessa malafede di quella della collaborazione, della viltà, del tradimento”: “Solo quelli che speculano sulla resistenza hanno, in Francia, il sentimento d’inferiorità, il complesso d’inferiorità della sconfitta. Si sentono vinti, cercano una giustificazione”. Mentre il collaborazionista voleva “sentirsi vincitore coi Tedeschi”.
Malaparte comunque mette in chiaro un fatto normalmente poi sottaciuto nelle tante storie della Resistenza: “La resistenza è un fatto europeo, che offre due aspetti principali: l’aspetto di una rivolta spontanea contro l’oppressore tedesco (Polonia, Norvegia) e l’aspetto di una rivolta organizzata dall’estero, con capi venuti dall’estero, con armi, viveri, uniformi, denaro dell’estero”. Questo secondo aspetto è della resistenza italiana, francese, olandese, danese, belga, jugoslava, e di altri paesi.
Lo scrittore denuncia lo squilibrio umorale tra resistenti e collabò alla fine del suo lungo diario, stanco di sentirsi sospettato di collaborazionismo per il solo fatto di essere italiano, da parte di francesi che avevano ceduto facilmente il terreno alla Germania ma si supponevano tutti resistenti. . Ma il fatto c’è, i due fatti.
Malaparte aggiunge anche, più problematica, la considerazione che “basarsi sullo «spirito della resistenza» sarebbe ridicolo, sarebbe fatale”. Un equivoco, si può dire senza polemica, prodromo di una politica bloccata – astiosa e incapace. “Questo spirito della resistenza”, Malaparte concludeva, “oggi, in Europa, è comunista, è elaborato, pagato, armato,organizzato dall’estero”.

Romania –  È il Paese europeo con la minore immigrazione e la più larga emigrazione, circa quattro milioni su una popolazione di venti milioni, che hanno preso la residenza in altri paesi europei. Lavoratori e calciatori prendono soprattutto la via dell’Italia, 1,2 milioni. Scrittori e artisti passano in gran numero alla nazionalità e alla lingua,, con risultati anche ottimi: Anna de Noailles, Marthe Bibesco, Tristan Tzara, Celan, Ionesco, Cioran, Eliade, Iorga, Paul Goma, Panait Istrati.

Velo – S’incontravano per strada a Tunisi e Algeri negli anni 1960, e anche nelle campagne, donne col viso scoperto e buone mussulmane. In Turchia ancora al volgere del millennio, prima di Erdogan e del suo uomo di paglia alla presidenza della Repubblica, Gül. I quali, entrambi, hanno obbligato le rispettive mogli, che non l’avevano mai portate, a munirsi di ridicole velette in testa – non sapevano come e dove metterle, è stato e tuttora è il lato esilarante degli altrimenti tristi ricevimenti ufficiali. A Istanbul, anche nei quartieri popolari, e lungo la costa mediterranea, s’incontrava rarissimamente una donna velata, accompagnata necessariamente dall’uomo. Ora in Turchia si contesta alle atlete professionali, già ricoperte da pesanti turbanti, la nudità delle estremità. C’entra questo con la religione? No. Col progetto di Erdogan sì. Questo sarà a danno della religione, e domani dell’economia. Ma per intanto le donne turche devono scomparire.

Negli anni post-indipendenza, il velo era praticato in Nord Africa e Medio Oriente, penisola arabica esclusa, solo dalle donne maroccchine. Del paese cioè abominato dal nazionalismo arabo-mussulmano. È però vero che era usato come scelta di moda, oltre che di vita: non penitenziale, non punitiva. Un “velo” aggraziato: atteggiato, colorato. Un modo di essere più che una pia pratica,  certamente non un obbligo imposto dall’uomo.

astolfo@antiit.eu 

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