Sappiamo di Petrarca, di cui sappiamo,
supponiamo, ogni cosa, l’uomo di lettere di cui più che di ogni altro si sa, quello
che Petrarca ha voluto che sapessimo. Curato, particolareggiato, insistito, in
lettere e scritti molteplici, ma controllato. Anzi costruito, secondo un
modello che voleva classico. Il primo selfie
della storia, seppure non dichiarato, a lenta emulsione. Un’autofiction modello, su canoni classici.
I venerdì sono quelli che Ludovico
Beccadelli, il monsignore allievo di Bembo, evidenziava nella sua tarda
biografia, 1570, dei digiuni feraci: “Digiunava tutta la quaresima e le
vigilie, e ogni venerdì faceva il digiuno in pane e acqua: e così continuò sino
alla vechiezza. Da questo credo che si
vedano molti delli suoi concieri … fatti in venerdì; nel qual giorno, per il
digiuno seco raccolto e più vigilante dava anco più opera a li studi e rivedeva
le sue composizioni”.
Rico decostruisce l’immmagine elaborata da
Petrarca, di cui tutto sa, non senza humour. Ma più con rispetto. Specialista
della letteratura picaresca, del chisciottimo, e del poeta di Laura, resta
fedele al suo idolo. Di cui ricompatta le probabili manipolazioni in una sorta
di ascetismo, della persona che si conforma all’immagine, il dispositivo dell’agiografia
adottando non a stile ma a materia di vita.
Con un dubbio finale. L’uomo, e anche il
poeta, che si conforma all’immagine, per quanto elevata, raffinata, nobile, sa
di conformismo. Mentre Petrarca (ancora) parla. E poi, a proposito di venerdì, non
era Petrarca un ricco capitalista, seppure non epulone? Stava al centro del potere, si
dotava di ricche residenze, collezionava costosi manoscritti di Platone.
Francisco Rico, I venerdì del Petrarca, Adelphi, pp. 219 € 14
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