lunedì 17 ottobre 2016

Il venerdì le poesia vengono meglio

Sappiamo di Petrarca, di cui sappiamo, supponiamo, ogni cosa, l’uomo di lettere di cui più che di ogni altro si sa, quello che Petrarca ha voluto che sapessimo. Curato, particolareggiato, insistito, in lettere e scritti molteplici, ma controllato. Anzi costruito, secondo un modello che voleva classico. Il primo selfie della storia, seppure non dichiarato, a lenta emulsione. Un’autofiction modello, su canoni classici.
I venerdì sono quelli che Ludovico Beccadelli, il monsignore allievo di Bembo, evidenziava nella sua tarda biografia, 1570, dei digiuni feraci: “Digiunava tutta la quaresima e le vigilie, e ogni venerdì faceva il digiuno in pane e acqua: e così continuò sino alla vechiezza.  Da questo credo che si vedano molti delli suoi concieri … fatti in venerdì; nel qual giorno, per il digiuno seco raccolto e più vigilante dava anco più opera a li studi e rivedeva le sue composizioni”.
Rico decostruisce l’immmagine elaborata da Petrarca, di cui tutto sa, non senza humour. Ma più con rispetto. Specialista della letteratura picaresca, del chisciottimo, e del poeta di Laura, resta fedele al suo idolo. Di cui ricompatta le probabili manipolazioni in una sorta di ascetismo, della persona che si conforma all’immagine, il dispositivo dell’agiografia adottando non a stile ma a materia di vita.
Con un dubbio finale. L’uomo, e anche il poeta, che si conforma all’immagine, per quanto elevata, raffinata, nobile, sa di conformismo. Mentre Petrarca (ancora) parla. E poi, a proposito di venerdì, non era Petrarca un ricco capitalista, seppure non epulone? Stava al centro del potere, si dotava di ricche residenze, collezionava costosi manoscritti di Platone.
Francisco Rico, I venerdì del Petrarca, Adelphi, pp. 219 € 14

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