Il titolo è del quadro famoso di
Delacroix. Che dopo un mese in Marocco, paese di sovrabbondanti colori, passa a
Algeri solo tre giorni, in transito. Ma a Algeri ha l’opportunità di entrare in
un harem, il mondo segreto delle donne, e anzi di conversare. Ne trae
l’abbondanza di sensazioni e segni che, con un lavoro intenso durato due anni,
trasporrà nel quadro celebre “Donne di Algeri nei loro appartamenti”.
Delacroix era conservatore, per i gusti
di Djebar. Le donne nell’harem gli piacevano perché lo riportavano a Omero: “le
donne sole, a crescere i figli e a filare”. Ma il suo quadro Djebar legge come “un
sguardo rubato”. Sul proibito, sul cancellato. “Rubato” anche perché è lo
stesso sguardo dell’uomo algerino, padre, marito, figlio, fratello, cui va il
diritto di guardare le donne .
Queste storie sono di “donne d’Algeri”,
dicee l’autrice presentandole. E “capisaldi di un percorso dedicato all’ascolto”,
dopo il 1958, in ragione del suo steso “intermittente silenzio di donna araba”,
da scrittrice algerina francese a Parigi (Fatima-Zohra Imalayen, “Assia
Djebar”, la scrittrice morta l’anno scorso, bellissima esordiente a Parigi a 23
anni, 1959, su “La nouvelle Critique”, era dal 2005 membro dell’Accademia di
Francia) “risvegliata” dalla rivoluzione nazionale. In realtà storie di donne di
Cherchell, in antico Cesarea, la sua città di origine – Algeri è un altro
mondo. Ma acute, quasi profetiche – i racconti sono degli anni 1970, pubblicati
nel 1980. Di esistenze scandite dalle pie pratiche, e dal linguaggio stesso, la
seconda pelle, la vera: formule augurali e di scongiuro, matrimonio forzato, ripudio,
la nudità curata, riservata all’uomo, e
una rivoluzione che ha finito per imporre
il ritorno alla sottomissione. Comprese le memorie (presumibilmente) familiari,
della vecchia nonna, di una dignità perduta nella democrazia – esemplata
sul(la?) nipote .
L’Algeria dopo la rivoluzione è un paese
dove le “donne libere” sono in città quelle delle pulizie, che possono uscire da sole “su bianche fila prima
dell’alba”. Le altre sono “in clausura, magari neppure in un cortile, ma solo
in una cucina dove stanno sedute per terra schiantate dall’isolamento”. La
condizione normale: “Molte donne non possono uscire se non per andare ai
bagni”. E in casa stanno in attesa dell’uomo. Senza solidarietà femminile, come
vorrebbe l’ortodossia, solo energia. Per lo più distruttiva. In un paese
condannato non solo dalla condizione femminile, di metà più qualcosa della
popolazione, le nutrici dei figli, delle generazioni future, ma, di più, da uno
stato di soggettiva – tradizionale, arcaica - soggezione. Che condannava al
fallimento la rivoluzione, in una sorta di circolo vizioso: “Non è solo il
colonialismo l’origine dei nostri problemi psicologici; c’è anche il ventre
delle nostre donne frustrate!”
Assia Djebar, Donne d’Algeri nei loro appartamenti, Giunti, pp. 185 € 5,90
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