“Il nostro risentimento, la nostra
incapacità di liquidare il passato, non si chiama rancore, ma orrore”. “Fare
dei paralumi con la pelle dei deportati, bisogna essere un vampiro metafisico
per avere un’idea del genere: che dunque non ci meravigli se un crimine
insondabile provoca una meditazione inesauribile”. “Non perdonare loro, perché
sanno quello che fanno”. “Dal macchinista dei convogli fin al miserabile
burocrate che teneva la lista delle vittime, ci sono ben pochi innocenti fra
questi milioni di tedeschi muti e complici”. “Ci sarà rimproverato di
paragonare questi malfattori ai cani? Lo ammettiamo, il paragone è ingiurioso
per i cani”. “La buona coscienza dei tedeschi di oggi ha qualcosa di stupefacente:
i tedeschi sono un popolo impentito”. “Il perdono! Ma ci hanno mai chiesto
perdono?” E la prescrizione è impossibile, “è morta nei campi della morte”.
Vladimir Jankélévitch, che nel 1967
aveva analizzato e teorizzato “Il perdono”, quattro anni dopo, nella discussione in Francia sulla
prescrizione dei crimini nazisti, prese violentemente posizione contro, con un
“Perdonare?” di cui agli estratti. Un testo che verrà ripreso nel 1986, dopo la
sua morte, con altri analoghi sotto il titolo “L’imprescriptible”. Di questa
raccolta (tradotta subito ma parzialmente, col titolo “Perdonare?”) Derrida
impiantò l’analisi in una serie di seminari all’università, il cui filo
sintetizzò in una conferenza proposta in varie occasioni dieci anni dopo, in
Polonia, Australia, Sud Africa e Israele, che qui è presentata, da Laura
Odello. Sottotitolo in originale
“L’impardonnable et l’imprescriptible”
La curatrice è perplessa: “Non sappiamo
che cosa dica veramente Jacques Derrida quando ci dice perdono e grazia”. Invece
Derrida è a favore, del perdono nel senso più ampio. Per filogermanesimo
probabilmente, ma con la volontà di provarne il fondamento. Nel luogo più
arduo, dell’etica, tra il diritto cioè e la religione, dove i contorni sono più
precisi. Ma non – è vero – esplicitamente, non direttamente: l’imprescrittibilità è recente, coniata a
Norimberga, e non è certa la consistenza giuridica del nuovo concetto di
delitto contro l’umanità. La questione è proposta all’incontrario: “È possibile
domandare o concedere il perdono a un altro che non sia l’altro singolare, per
un torto o un crimine singolare”, sottinteso: commesso dal singolo, specifico,
individuo? Ma, al fondo, la riposta è semplice: il perdono è fatto per
l’imperdonabile. Jankélévitch stesso non l’aveva argomentato diffusamente? Il
perdono come sfida alla logica penale. Anche suo compimento.
Nell’una e nell’altra trattazione
Jankélévitch non manca di argomenti. Uno in particolare è solido: il perdono
entra in considerazione se domandato. Non si perdona qualcuno che non si
confessa colpevole: “Ma essi”, aggiunge nella filippica del 1971, i tedeschi,
“ci hanno mai domandato perdono? Soltanto la disperazione e la solitudine del
colepevole darebbero un senso e una ragion d’essere al perdono”. Derrida scantona, ecumenico-angelico: “Vi è nel
perdono, nel senso stesso del perdono, una forza, un desiderio, uno slancio, un
movimento, un appello (chiamatelo come volete) che esige che il perdono sia
accordato, se può esserlo, perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si
pente né si confessa”. Il perdono proponendo, seppure come ipotesi, come
“dono”: “Noi ci domanderemo se paradossalmente la possibilità del perdono come
tale, se ce n’è, non abbia origine. Noi ci domanderemo se il perdono non
comincia laddove esso sembra finire, laddove esso sembra im-possibile”.
L’imprescrittibile è parte di una famiglia semantica (inappellabile,
inespiabile, irrevocabile…) fondata su una negatività, “il «non» di un impossibile
che significa alternativamente o contemporaneamente «impossibile perché non si
può», «impossibile perché non si deve»”.
Ma poi, come nel diritto, la cosa matura
con il tempo: “Il perdono, la perdonità, è il tempo”. Non c’è storia senza
perdono: “È in questo orizzonte che dovremmo rileggere tutti i pensieri che,
come quello di Hegel, o in altro modo di Lévinas (e in Lévinas in modo diverso
in vari momenti del suo percorso), fanno dell’esperienza del perdono, dell’essere-perdonato,
del personarsi-l’un-l’altro, del riconciliarsi, per così dire, una struttura
esistenziale e ontologica (non soltanto etica o religiosa) della costituzione temporale, il movimento stesso
del’esperienza soggettiva e intersoggettiva”. Di un fatto-misfatto evidentemente, non di un evento. Un terremoto che
distrugge una comunità non c’è da perdonarlo.
Jacques Derrida, Perdonare, Raffaello Cortina pp. 106 € 8,80
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