martedì 25 ottobre 2016

Non c’è storia senza perdono

“Il nostro risentimento, la nostra incapacità di liquidare il passato, non si chiama rancore, ma orrore”. “Fare dei paralumi con la pelle dei deportati, bisogna essere un vampiro metafisico per avere un’idea del genere: che dunque non ci meravigli se un crimine insondabile provoca una meditazione inesauribile”. “Non perdonare loro, perché sanno quello che fanno”. “Dal macchinista dei convogli fin al miserabile burocrate che teneva la lista delle vittime, ci sono ben pochi innocenti fra questi milioni di tedeschi muti e complici”. “Ci sarà rimproverato di paragonare questi malfattori ai cani? Lo ammettiamo, il paragone è ingiurioso per i cani”. “La buona coscienza dei tedeschi di oggi ha qualcosa di stupefacente: i tedeschi sono un popolo impentito”. “Il perdono! Ma ci hanno mai chiesto perdono?” E la prescrizione è impossibile, “è morta nei campi della morte”.
Vladimir Jankélévitch, che nel 1967 aveva analizzato e teorizzato “Il perdono”, quattro anni dopo, nella discussione in Francia sulla prescrizione dei crimini nazisti, prese violentemente posizione contro, con un “Perdonare?” di cui agli estratti. Un testo che verrà ripreso nel 1986, dopo la sua morte, con altri analoghi sotto il titolo “L’imprescriptible”. Di questa raccolta (tradotta subito ma parzialmente, col titolo “Perdonare?”) Derrida impiantò l’analisi in una serie di seminari all’università, il cui filo sintetizzò in una conferenza proposta in varie occasioni dieci anni dopo, in Polonia, Australia, Sud Africa e Israele, che qui è presentata, da Laura Odello. Sottotitolo in originale “L’impardonnable et l’imprescriptible”
La curatrice è perplessa: “Non sappiamo che cosa dica veramente Jacques Derrida quando ci dice perdono e grazia”. Invece Derrida è a favore, del perdono nel senso più ampio. Per filogermanesimo probabilmente, ma con la volontà di provarne il fondamento. Nel luogo più arduo, dell’etica, tra il diritto cioè e la religione, dove i contorni sono più precisi. Ma non – è vero – esplicitamente, non direttamente:  l’imprescrittibilità è recente, coniata a Norimberga, e non è certa la consistenza giuridica del nuovo concetto di delitto contro l’umanità. La questione è proposta all’incontrario: “È possibile domandare o concedere il perdono a un altro che non sia l’altro singolare, per un torto o un crimine singolare”, sottinteso: commesso dal singolo, specifico, individuo? Ma, al fondo, la riposta è semplice: il perdono è fatto per l’imperdonabile. Jankélévitch stesso non l’aveva argomentato diffusamente? Il perdono come sfida alla logica penale. Anche suo compimento.
Nell’una e nell’altra trattazione Jankélévitch non manca di argomenti. Uno in particolare è solido: il perdono entra in considerazione se domandato. Non si perdona qualcuno che non si confessa colpevole: “Ma essi”, aggiunge nella filippica del 1971, i tedeschi, “ci hanno mai domandato perdono? Soltanto la disperazione e la solitudine del colepevole darebbero un senso e una ragion d’essere al perdono”.  Derrida scantona, ecumenico-angelico: “Vi è nel perdono, nel senso stesso del perdono, una forza, un desiderio, uno slancio, un movimento, un appello (chiamatelo come volete) che esige che il perdono sia accordato, se può esserlo, perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si pente né si confessa”. Il perdono proponendo, seppure come ipotesi, come “dono”: “Noi ci domanderemo se paradossalmente la possibilità del perdono come tale, se ce n’è, non abbia origine. Noi ci domanderemo se il perdono non comincia laddove esso sembra finire, laddove esso sembra im-possibile”. L’imprescrittibile è parte di una famiglia semantica (inappellabile, inespiabile, irrevocabile…) fondata su una negatività, “il «non» di un impossibile che significa alternativamente o contemporaneamente «impossibile perché non si può», «impossibile perché non si deve»”.
Ma poi, come nel diritto, la cosa matura con il tempo: “Il perdono, la perdonità, è il tempo”. Non c’è storia senza perdono: “È in questo orizzonte che dovremmo rileggere tutti i pensieri che, come quello di Hegel, o in altro modo di Lévinas (e in Lévinas in modo diverso in vari momenti del suo percorso), fanno dell’esperienza del perdono, dell’essere-perdonato, del personarsi-l’un-l’altro, del riconciliarsi, per così dire, una struttura esistenziale e ontologica (non soltanto etica o religiosa) della costituzione temporale, il movimento stesso del’esperienza soggettiva e intersoggettiva”. Di un fatto-misfatto evidentemente, non di un evento. Un terremoto che distrugge una comunità non c’è da perdonarlo.
Jacques Derrida, Perdonare, Raffaello Cortina pp. 106 € 8,80

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