Cartesio – Il surrogato
della Riforma in Francia, lo vuole Malaparte nel diario parigino dopo la guerra,
“Journal d’un étranger à Paris”. Che ha lo stesso “profondamente trasformato il
cattolicesimo francese”. In ogni caso, il cartesianesimo “ha eliminato ogni
elemento magico nela vita francese”. Lo stesso si può dire di Pascal, da questo
punto di vista, in campo avverso. Di una Riforma del genere calvinista, sradicante
– mentre quella luterana è radicata, “tedesca”, tribale, della divinità
radicate nel singolo tedescofono.
In
un senso è sicuramente vero: finisce nel Seicento, stagione peraltro gloriosa,
di sentimenti (Racine, Corneille) e di trasgressioni (Molière), una storia
letteraria vivace oltre quanto nessun’altra. Dalla ricchissima matière de Bretagne, con le connesse chansons de geste, ai trovatori, i fabliaux, “Il romanzo della rosa”, Villon,
Rabelais, Margherita di Navarra, Marot, Montaigne… Che poi si inaridisce nella
“filosofia”, delle stesse pulsioni e gli appetiti originari - fame, lussuria, dominio,
renitenza.
Entusiasmo
–
Ritorna la “Lettera sul’entusiasmo”, inteso come fanatismo religioso, di Shaftesbury,
1707 – tre edizioni in contemporanea, più due non remote, molto ben curate, una
da Garin e una da Mario Luzi. Un testo che reagiva alla rivolta dei Camisard in
Francia, a partire dal 1702, gli ugonotti delle Cévennes che protestavano
contro l’editto di Fontainebleau, con cui Luigi XIV cancellava le ultime guarentigie
dell’editto di Nantes. Ma non è tanto di religione quando di politica che nella
“Lettera” si parla: il conte di Shaftesbury, Anthony Ashley-Cooper, contesta il
fanatismo alla luce del principio della
tolleranza del suo precettore Locke. Più a fondo, propone come arma l’ironia, contro
il fanatismo religioso e politico della stagione hobbesiana della guerra
civile, di tutti contro tutti. Contro l’impegno, cioè, o la coerenza, dietro il
paravento della bonarietà: “Le opinioni più ridicole, le mode più assurde, possono essere dissipate
soltanto con la dote dell’irriverenza e da un pensiero meno serio e più lieve”. Col sussidio di bon mots: “La gravità è fatta della
stessa essenza dell’impostura”. “Salvare anime è diventata la passione
eroica degli spiriti esaltati”, etc.
Ronald A. Knox, lo scrittore di gialli e
cappellano cattolico di Oxford che è stato uno studioso dell’“entusiasmo” secentesco,
dai giansenisti ai camisard,
circoscrive l’analisi al solo fatto religioso. E così facendo trova confini non
definiti con l’eresia – la scoperta o proclamazione dell’eresia. E con la
santità – la professione di santità. Il francescanesimo, per esempio, che oggi
si impone.
Nella stagione contemporanea, dell’impegno
rovesciato, o dello scetticismo generale, l’ironia funziona così anch’essa al rovescio:
dando sostanza ai “veri credenti”. Contro l’estremismo resta solo la legge.
Grazia
(diritto di) – È
stata rifiutata a Sofri perché non l’ha richiesta. Cioè non ha ammesso la
colpa. Dopo essersi sottoposto a tutti i gradi di giudizio, pur potendo non
farlo. Ed è stato condannato in un
processo per molti aspetti, se non tutti, ricusabili.
Kant avrebbe obiettato, “Metafisica dei
costumi” – “Dottrina del diritto”, intr. al § 50 e segg. Kant limita il diritto
sovrano di grazia a delitti contro il sovrano, di lesa majestatis. Ma, pur definendolo il più delicato il più
rischioso e il più equivoco dei diritti sovrani, lo riconosce diritto di maestà.
E si rende conto che, senza, il diritto di grazia sarebbe un negozio
impossibile tra il colpevole e la vittima, anche se questa non è morta.
Derrida va oltre, nella
conferenza-saggio “Perdonare”, argomentando la prescrittibilità della
cosiddetta colpa collettiva: “È possibile domandare o concedere il perdono a un
altro che non sia l’altro singolare, per un torto o un crimine singolare”?
chiede retoricamente. E conclude: il perdono è fatto per l’imperdonabile.
Derrida analizza il perdono, o grazia,
in contrasto con Jankélévitch, che nel 1971, discutendosi in Francia
l’imperscrittibilità dei crimini nazisti, si era dichiarato a favore, con note
violentemente polemiche contro la Germania. Ma Jankélévitch stesso aveva
appena, 1967, argomentato diffusamente il perdono come sfida alla logica
penale. E anche suo compimento.
Più in particolare, a Jankélévitch 1971,
che afferma non potersi concedere il perdono a chi non lo chiede, professandosi
perciò colpevole, Derrida obietta: “Vi è nel perdono, nel senso stesso del
perdono, una forza, un desiderio, uno slancio, un movimento, un appello
(chiamatelo come volete) che esige che il perdono sia accordato, se può
esserlo, perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si pente né si
confessa”. Il perdono proponendo, seppure come ipotesi, come “dono”, la grazia
sovrana: “Noi ci domanderemo se paradossalmente la possibilità del perdono come
tale, se ce n’è, non abbia origine. Noi ci domanderemo se il perdono non
comincia laddove esso sembra finire, laddove esso sembra im-possibile”.
Heidegger – Il silenzio di
Heidegger sulla guerra e lo sterminio degli ebrei era stato denunciato da Jankélévitch
nel 1971 (nella raccolta “L’imprescriptible”, 1986, tradotta parzialmente, col
titolo “Perdonare?”): “Heidegger è responsabile per tutto ciò che ha detto
durante il nazismo, ma anche per ciò che non ha detto nel 1945”. Jankélévitch
si cautela dietro Robert Minder, il germanista del Collège de France, allievo
di Marc Bloch e Lucien Febvre (“Heidegger è responsabile, dice con forza Robert
Minder….”), ma l’accusa è parte di un’invettiva generale contro il popolo
tedesco a sostegno dell’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità, il nuovo
concetto emerso dal processo di Norimberga: “Il perdono! Ma essi ci hanno mai
domandato perdono?” Colpa tanto più grave nell benessere materiale goduto e
esibito: “Soltanto la disperazione e la solitudine del colpevole darebbero un
senso e una ragion d’essere al perdono. Quando il colpevole è grasso, ben
nutrito, prospero, arricchito dal «miracolo economico», il perdono è uno
scherzo sinistro. No, il perdono non è fatto per i porci e per le loro scrofe.
Il perdono è morto nei campi della morte”. Un ragionamento falsato dalla
polemica. Ma il silenzio c’è stato e c’è, fragoroso.
Lo Heidegger “marxista” sarebbe
controrivoluzionario? È ciò che sospetta Ernst Bloch, “Il principio speranza”, che
l’angoscia, l’inquietudine (Sorge = souci), e la vita-per-la-morte riporta
alla crisi della borghesia: “Corrisponde allo stato in cui vivono certi grandi
borghesi, che, così come Heidegger definisce la condizione umana in generale,
si trovano in una posizione precaria e pericolosa”. L’assurdo è “il malessere
della borghesia eretta in assoluto metafisico”. Un’analisi più marxista che
utopista. Ma è vero che la morte è controrivoluzionaria: “La controrivoluzione
si serve dell’idea della morte mettendola avanti come unico «fine» da assegnare
alla vita”. E insomma “l’uomo di Heidegger è rappresentativo della borghesia
decadente, o ostinata a persistere nella sua nullità accettata”.
Il “das Da” è di Kafka, “Il processo”,
il “qui-presente”.
Immagine – Elevata a regina
della comunicazione e dell’immaginazione, sostituto della parola, “specchio
della cosa”, da Junger a Antonioni, si è presto svilita. Dove più sembra trionfare,
nei social, sommersi dalle immagini che presto sono diventate “inutili” e
insignificanti: false, truccate, montate, menzognere, anche quando sono belle –
al meglio reggono, le “virali”, quando sono strane o eccessive. Già questo è un limite, che
l’immagine dev’essere peculiare. Ma, poi, anche questo è un limite: più strane
sono più sono inappetenti, truccate. L’immagine è presa al suo laccio, di voler
essere veritiera. Resiste, con limiti, quando è – si propone come – bizzarra.
Storia – Va per
generazioni.
È
l’eterno divenire – l’Essere che si rivela. Cioè il presente.
zeulig@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento