Turisti
a Milano
Un dominicano accoltellato a piazzale
Loreto e il sindaco Sala chiama l’esercito: “A Milano serve l’esercito”. Forse
vuole imitare Trump, benché riciclato Democrat. Ma questa è la città che si
vuole la più inteligente, sensibile, attiva, onesta d’Italia. E se a Sala si desse da gestire l’Esquilino?
“Sulla storia di Milano, delle sue
istituzioni e dei suoi protagonisti”, riepiloga Giuliano Vigini su “La
lettura”, ci sono oggi più di 2.500 saggi, guide, libri illustrati, grandi
opere, di cui 100 uscite nel 2016”. Ma, aggiunge, “i milanesi conscono poco la
loro città”. Ne parlano soltanto, per sentito dire?
Non
è molto che il sindaco Sala poneva Milano avanti a Roma come numero di
turisti. Forse l’eletto di Renzi non sa contare. Turisti a Milano?
L’invenzione
di Africo
“In uno di questi vani”, miserabili
casupole, “vidi nella penombra, steso su d’un letto, accanto ad un malarico
febbricitante, un grosso maiale:
- Issu trema pa frevi (febbre) – mi
spiegarono - u porcu nci duna u focu soi”.
“Africo”, la perdizione, nasce con
Zanotti Bianco, che nel 1928 visitò il paese, attendandosi fuori dell’abitato,
per le attività assistenziali della sua associazione e per svolgervi un’inchiesta.
E ne scrisse un racconto, “Tra la perduta gente (Africo)” – poi, dopo una
trentina d’anni, confluito nella raccolta dallo stesso titolo. Il grande,
gigantesco, quasi inimmaginabile, filantropo, imprenditore sociale, archeologo,
storico, etc., della Calabria e di tutto il Sud Italia, avviava una serie e
quasi un genere: “Mangiamo l’ortichi cotti comu alli rimiri”, si fa raccontare
Zanotti Bianco, “e l’agghianda, cu permessu parrandu, com’i porcelluzzi”.
Due anni dopo Corrado Alvaro riproporrà
l’immagine degli africoti, sparsi per la pianura padana, scacciati dalla
propria terra dalle cattive fiumare (o da un terremoto?), che si nutrono
masticando paglia.
Zanotti Bianco aveva spedito, alla sua
prima visita, a vari conoscenti e studiosi una pagnotta del “pane” di Africo:
un “mischio” di “farina di lenticchie, di cicerchie e d’orzo, dal gusto acido e
amaro” – pagnotte, commenta, “che non hanno alcuno dei caratteri del pane di
frumento e sono in massima parte ammuffite”. Africo sarà tema di molte
trattazioni: reportages, racconti,
denunce, ora anche film. Ma tutti sulla traccia di UBZ.
A passarci, il paese appare
singolarmente deserto. Vuoto di quel mormorio, di voci sospese o anche nute,
come di aria stagnante, che fa una comunità. Scritto, più forse di San Luca, ma
singolarmente anonimo. Un nome più che un paese, di storie quindi e di vite.
Il tratto luciferino della leggenda di
Africo è fattuale, la retorica chiede poco a Zanotti Bianco – il racconto è da
antologia, per sobrietà e ricchezza di mezzi. Vi si arriva per una mulattiera.
Preceduta da un tratto di carozzabile che appena costruita si è dissolta. Si
cena con una sbobba che il cane Lupo rifiuta - avrà poi problemi ad
addormentarsi, stupito della miseria del giaciglio dell’amato padrone, in un
abituro che non può nemmeno dirsi una causopola – in attesa di montare la tenda
fuori paese che il filantropo preveniente si è portato.
Il giorno dopo è diverso. La scuola
serale è stipata, da giovani per lo più. Gli abituri di Africo hanno retto al
terremoto. Non molto, ma molto meglio che nell’Italia centrale oggi, benché il
terremoto del 1908 fosse di intensità più elevata. Di 135 case censite 15 sono
rimaste illese, venti crollate completamente, 30 parzialmente, il resto lesionate.
E Africo bene o male paga in un anno 60 mila lire, cifra enorme, di tasse sui pascoli delle capre. Mentre incontestabile è la barbarie dell’Italia: impone la
leva e le tasse ai poveri, e severa li multa alla scadenza, non dà alcuna
assistenza medica, fa pagare la pagella ai bambini a scuola, e chiude i mulini
ad acqua, imponendo “per modernità” quelli meccanizzati – che sono uno solo, a
Reggio Calabria, due giorni di viaggio delle granaglie, e costo trplicato.
Suscitando reazioni tutto sommato miti: che fastidio davano i nostri mulini,
argomenta un mugnaio, non impegnavano nemmeno la forza elettrica.
Tutti
mafiosi
“’Ndrangheta unitaria, verità storica, Al
centro c’è il Crimine di Polsi”. Ora, Polsi non è abitata, si fatica a vederne
il “Crimine”, se si intende una associazione criminosa, un’oligarchia. Anche una
monarchia, seppure di malaffare, è arduo immaginarla. Ma lo dice la Cassazione
e bisogna crederci.
Lo dice in maniera incomprensibile -
bisognerà credere per atto di fede? Stabilisce la Cassazione al culmine di un
processo contro piccoli delinquenti in Piemonte: “Il rilievo dell’unitarietà
del sistema creato, rinveniente in primo luogo dal riconoscimento della
reciproca esistenza e della corretta volontà di costituire un sistema articolato
ma unitario comoprta che l’analisi del metodo mafioso e del suo utilizzo non
dovesse essere partitamente condotta con riferimento a ciascuna locale, ma
dovesse essere effettuata con rigaurdo al sistema nel suo complesso” – “locale”
nel senso di cosca locale. È la motivazione della sentenza di condanna al
processo “Minotauro”.
L’indagine “Minotauro” e la Cassazione
confermano anche la neo formazione – neologismo? - “mafia silente”: “Non può essere riferita a
una mafia che non utilizza il metodo mafioso, ma ben diversamente a una mafia
che non ha bisogno di dimostrare ulteriormente alcunché, perché essa è già
riconosciuta”. Ciò ai fini dell’applicazione dell’art. 416-bis del codice penaòe,
dell’associazione mafiosa. Basta niente.
Tutti mafiosi è più giusto che mafiosi e
non mafiosi? Certo, è meno difficile.
Calabria
Michele Giuttari, “La donna della
‘ndrangheta”, riporta la mafia a san Tommaso: “Andragathia est viri virtus adinventiva communicabilium operum”, “Summa
Theologica”, II-IIae, Quaestio 128, De partibus fortitudinins. La citazione sembra
cosa di furbetti del quartierino, e non di uomini d’onore. Che invece Giuttari
sottolinea, nei riferimenti e nella traduzione: “L’andragatìa è la virtù dell’uomo
che sa sperimentare gli espedienti che occorrono nelle opere vantaggiose”.
Quello di costituire un mounmento alla ‘ndrangheta
effettivamente è un grosso problema – san Tommaso dispererebbe.
Le Guardie Forestali annesse ai
Carabinieri sono subito addette ai controlli alimentari, che nessuno vuole
svolgere. Ma non sanno nemmeno questo, e
si passano la mattinata alla rinomata pasticceria. Dove sono sicuri di trovare in
ordine le carte che non sanno leggere: dipendenti, assicurazioni sociali,
materiali in lavorazione, etichettature fedeli, igiene in laboratorio, prodotti
naturalmente non scaduti, etc. Non tutti i giorni, ma ogni due giorni sì.
È così che si costruisce il rapporto di
fiducia con la popolazione, specie con chi lavora e non vorrebbe perdere
tempo.
Imputato lascia il Tribunale, compie una rapina, e ritorna in
aula. È successo a Paola, Cosenza.
Macera è in dialetto il muro a secco. Si usa in molte regioni, non avendo
l’italiano l’equivalente in una sola parola. Si fa derivare da “macerie”, ma la
macera non è un impasto di materiali residui, è una costruzione con pietre
angolari, seppure povere. Più probabile dervi dal greco per altezza, lunghezza.
È ritenuta parola dell’italiano, come tamarro, togo e madosca,
di cui non si spiega l’origine.
Bandello fu a
Altomonte, nel 1506, a 21 anni. Al seguito dello zio Vincenzo, superiore domenicano.
A dodici anni, nel 1497,
Matteo Bandello era a Milano ed entrava nel convento domenicano retto dallo zio, Santa
Maria delle Grazie, dove Leonardo dipingeva l’Ultima Cena – nel convento
pronunciò nel 1500, a 15 anni, i voti. Proseguì
gli studi in varie città, Pavia, Ferrara, Genova, fino al 1505. Quell’anno partì
in missione con lo zio, in qualità di cancelliere guardasigilli, in un viaggio d’ispezione
ai conventi domenicani in Italia.
Insieme furono a Firenze, Roma, Napoli, e in Calabria. A Altomonte lo zio
all’improvviso morì, il 27 agosto 1506. Seppellito lo zio a
Napoli, tornò a Milano, a Santa Maria delle Grazie.
Ha molto toro nella toponomastica. Ce n’è
anche in Grecia – Tauro e Tauriana – ma in Calabria di più.
Il Toro
è emblema della potenza vitale. Mitra ha il compito di ucciderlo. Ci riesce,
con l’aiuto di uno scorpione, che colpisce il toro ai testicoli, e di un
serpente, che lo avvelena. Ma morendo il Toro genera le piante che sfamano l’uomo:
il grano e la vite.
La lettura cabbalistica e esoterica rovescia il senso del segno,
negli echi bibilici: il toro è canto, il toro è femmina. Il Toro, secondo segno zodiacale, è il femminile. E dal punto
di vista astrologico governa la gola, quindi la voce e il canto. Inoltre è
legato, sempre dal punto di vista astrologico, all’ambiente bucolico e naturale. Tutto questo, il canto, il femminile,
la campagna idilliaca, rinvia al “Cantico dei Cantici”, in ebraico “Shir Ha-Shirim”.
Dove Shir, tradotto con “cantico”, ha
radice identica con Shor, toro.
leuzzi@antiit.eu
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