Con Trump spesa in deficit
Dopo Waterloo, la vittoria di Trump segna anche la fine dell’opinione
pubblica? Dei media, dei sondaggi, all’evidenza fuori rotta. Durante la
campagna elettorale, si è detto, ma di più ora. Per l’incapacità di analizzare
la sorpresa più che per la inattendibilità dei sondaggi, che sono oggi i principali
veicoli di opinione. Anche dei media qualificati, con i loro analisti e
specialisti. A due settimane dalla sorpresa aspettiamo ancora di
saperne qualcosa.
La vittoria di Hillary Clinton al voto
popolare, concentrata in California e nello stato di New York, conferma
indirettamente il collasso della opinione pubblica: nemmeno il partito Democratico, e la macchina elettorale di Hillary
Clinton, più potente, molto, di quella di Trump (in questo senso la vittoria
dell’“arricchito” Trump è una vittoria della democrazia: i suoi fondi
elettorali erano un terzo o un quarto di quelli della rivale), hanno avvertito, nemmeno
subodorato, anche solo per ipotesi, la sconfitta.
Cosa attendersi è detto in America Fist. Attacchi
concentrati sui media Usa – legittima difesa? Mano dura con gli Stati
“canaglia”, Iran, Corea del Nord. Ma, di più, sul fronte multilaterale o della
globalizzazione, che non fa più gli interessi americani. Nel quadro di una
revisione degli assetti regolatori mondiali, nel commercio e nel clima. Nei
quali al Cina marcia all’evidenza in regime mercantilistico, commercio, tecnologia,
ambiente, lasciando gli oneri agli altri – la libera produzione di CO2 in Cina
è superiore a quella del resto del mondo: i mercati si conquistano senza
garanzie di qualità, se non accessorie, e senza rispetto par i diritti umani –
paga e orario di lavoro.
Una revisione quindi con la Cina in speciale
modo. Ma poi anche con l’Europa, il secondo maggior partner commerciale, e con
i paesi confinanti, Canada e Messico. Col Messico anche per l’immigrazione
clandestina – un problema che già Bush jr. avrebbe dovuto affrontare, e poi
Obama: non è pensabile che il Sud America si trasferisca negli Stati Uniti.
Trump vorrà riequilibrare d’imperio i rapporti commerciali – lo ha detto – a
prescindere dallo statuto europeo di
fatto, di alleato indivisibile degli Stati Uniti.
Ci sarà anche meno America in Medio Oriente,
in Libia, in Palestina, nella penisola arabica.
Fra i tanti paradossi non spiegati dell’elezione
di Trump, il candidato impossibile, c’è la fiducia dei mercati, che gli indici di Wall Street
sintetizzano. Il dollaro ha accelerato l’apprezzamento in corso da fine 2014,
portandosi contro l’euro al livello dell’1
gennaio 1999, alla quasi parità della prima quotazione. I titoli azionari hanno
battuto i precedenti record al rialzo. Immediata si è prodotta una fuga consistente
di capitali dai fondi obbligazionari in Asia e America Latina verso Wall
Street, 7-800 miliardi di dollari in pochi giorni.
È come se i mercati puntassero su una politica
di deficit spending – l’unica che si può delineare dalle confuse dichiarazioni
di Trump – per rafforzare e stabilizzare la crescita. Chiudendo la fase d’incertezza
che era seguita all’annuncio della Federal Reserve di ritenere chiuso il ciclo
dei tassi zero e del quantitative easing.
I tassi al minimo non attiravano più gli
investitori: il differenziale reale rispetto ai tassi monetari, misurato con la
crescita dell’economia, non era più attraente. Una politica di deficit
crescenti, in grado di stimolare meglio l’economia, è ora la scommessa dei
mercati sulla Trumpenomics, la politica economica della nuova presidenza.
Era la richiesta degli economisti liberal - di sinistra. Nonché del
candidato democratico Sanders, il radicale sconfitto da Hillary Clinton. Ma
molti repubblicani si sono espressi in passato per un programma di stimoli all’economia,
con sgravi fiscali, spesa pubblica e incentivi.
Se questo sarà il programma di Trump, il divario
con l’Europa diventerà un baratro.
Nessun commento:
Posta un commento