Al
trionfo di Putin ha partecipato il 48 per cento dei russi aventi diritto – e
meno ancora nelle metropoli: il 33 per cento a Pietroburgo, il 35 a Mosca. Si
astengono gli ungheresi dell’agitatore Orban: al suo referendum anti-immigrati
ha votato solo il 43 per cento. Si astengono i francesi: all’ultimo voto, a
inizio anno, per le regionali, si è astenuto al primo turno il 50 per cento
dell’elettorato (al secondo il 70 e oltre per cento). Si astengono i
lavoratori: nei primi dieci quartieri di Parigi a maggioranza salariata
l’astensione al primo turno è stata tra il 60 e il 70 per cento. Si astengono
anche i tedeschi: alle ultime ragionali al 38 e più per cento – alle comunali
di Hannover al 44,5.
Si
astengono gli italiani: il referendum potrebbe vincerlo l’astensionismo. Non in
senso tecnico – il referendum comunque sarà valido – ma politico: potrebbe
vedere una partecipazione miserevole. Le premesse ci sono, nei sondaggi, e
nella parole d’ordine che corrono nei vecchi partiti. E non sarebbe una novità.
Nemmeno uno scandalo, l’astensione è uno dei modi di fare politica. Ma sì nel
quadro di fondo, che porta sempre più e sempre in più paesi all’astensione:
quasi dappertutto il “primo partito”: come se gli elettori lasciassero
scoraggiati il mercato politico - così come molti, dopo troppi fallimenti,
smettono di cercare lavoro, gli “scoraggiati”.
È il trend in Italia
Il
fenomeno è universale – nel piccolo universo europeo. In Italia è un trend
sempre più robusto. Per il sindaco di Milano si sono astenuti, malgrado una
campagna elettorale vivace, il 45 per cento degli aventi diritto – erano stati
il 24 per cento alle politiche nel 2013. E come a Parigi, l’astensione è stata
superiore nei quartieri di salariati, un 53 per cento (59 a Rogoredo, 58,5 al
Corvetto, 56 a Quarto Oggiaro, 57 al Giambellino). Anche a Torino, il successo
di Appendino è frutto dell’astensione, al 45 per cento al primo turno.- con
tassi superiori nei quartieri operai: Villette al 54, Mirafiori Nord al 55,
Madonna di Campagna al 51. O in Liguria per le regionali l’anno scorso: in due
anni l’astensione è passata da poco più del 25 al 50,5 per cento – con tassi
più alti nei quartieri operai: 58,8 a Marassi, 53,3 a Cornigliano, 52, 6 Bolzaneto.
Nell’Italia
che votava sempre e comunque, la tendenza si può anzi dire storica. Fino alle
regionali del 1976 l’astensione era fisiologica, attorno al 10 per cento. Alle
politiche del 1979, la prima sconfitta del Pci, è salita al 13,1. Nel decennio
successivo ha oscillato sul 16 per cento. Negli anni 1990 sul 20 per cento - la
fine della “Prima Repubblica” si compensava con la mobilitazione per la
“Seconda”, specie a destra. Nel 2001, vittoria di Berlusconi, e quindi della
destra, è però salita al 25 per cento. Nel 2013, trionfo di Grillo, al 30.
Tredici milioni di elettori, una volta e mezzo il voto del Pd, o di Grillo, o
della coalizione di destra. Necessariamente di elettori salariati, per due
terzi o quattro quinti. Con un tasso di astensione triplicato in quattro
decenni, con progressione costante. Nelle elezioni locali successive
l’astensione ha raggiunto il 50 per cento e oltre.
Impoverimento
Le
ragioni sono molteplici. Il non voto di protesta. La frustrazione per le
aspettative non realizzate. Le nuove stratificazioni sociali, imposte dal mercato
o globalizzazione, e dalla crisi persistente, ormai quasi da un decennio. La
difficle integrazione etnica.
Questa,
da tempo aperta negli Usa, è una questione nuova in Europa. Negli stessi Usa ha
una recrudescenza, paradossalmente proprio sotto la prima presidenza di una
minoranza, per l’immigrazione clandestina massiccia da una dozzina d’anni a
questa parte: 43 milioni di arrivi nel
millennio, legali e illegali, su una popolazione di 320 milioni, a fronte dei
21,1 entrati nella Ue con grande scandalo, su una popolazione di 507 milioni.
La
frustrazione non è una novità, ed è inerente alla politica. La novità è che è
estesa e stratificata, consolidata. Le nuove povertà sono una novità, evidentemente,
il nome lo dice, ma una novità tanto più insopportabile per venire dopo l’affluenza,
come impoverimento.
Tutti
questi fenomeni solitamente inducono alla mobilitazione: sociale, etnica,
nazionalistica. Retrograda o progressista, ma nel senso di una maggiore
partecipazione. È il caso in Francia col successo crescente del Front Natioanl,
in Italia col successo nel 2013 di Grillo, e ora a Torino e Roma, in Germania
con quello di Aternative für Deutschland. Tutti movimenti interclassisti, ma
con una coloritura decisa anti-immigrati e anti-europei. Ma sempre più la
rivalsa cede alla demoralizzazione. Evidente in questo scorcio di millennio: le
rivalse, come se sbattessero contro un muro inerte, sembrano agire da emolliente
e spingono al disarmo morale, al ritiro. La globalizzazione potrebbe avere
alzato la linea del conflitto ad altezze che masse crescenti ritengono di non
potere più condividere in qualche modo, perdenti, vincenti o semplici partecipanti.
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