Una testimonianza d’affetto per un
tesoro che si riteneva perduto, e di orgoglio dell’antichista emerito per il
lavoro di una vita. Veyne ha recuperato i materiali di altre pubblicazioni su
Palmira cui aveva contribuito negli anni per rendere questa testimonianza nel
momento, a fine 2015, in cui sembrava che il sito stese per essere distrutto dall’Is.
“Storia di un tesoro in pericolo” è il sottotiolo della traduzione – era “Il
tesoro insostituibile” nell’originale a fine 2015 – perché intanto la città è
stata liberata. D’altra parte, se i templi non sono stati distrutti, il vecchio
curatore, l’archeologo Khaled Al-Assad, è stato giustiziato coi suoi soliti
metodi dall’Is, per essere “interessato agli idoli”, e numerosi manufatti
minori distrutti o dispersi.
Palmira è uno dei siti antichi “più
sontuosi”, con Pompei e Efeso. Ma è anche un’eccezione: “Nell’impero romano, o
piuttosto greco-romano, tutto era uniforme, architettura, abitazione, lingue sc
ritte e scritture, abbigliamento, valori, autori classici e religiosità, dalla
Scozia al Reno, al Danubio, all’Eufrate e al Sahara, almeno nella buona
società”. Palmira era anch’essa una città civile, e di cultura, ma di un’altra.
Mediava commercialmente il mondo orientale, attraverso la via della Seta, delle
seterie e delle spezie, e ne recepiva le forme di culto e d’arte. Ascese per
questo a rapida fama agli albori della “cultura delle rovine”, sul suo nome
Hölderlin fantasticò, e poi Baudelaire.
La pubblicazione si segnala per le
ottime foto del sito. E per l’aneddotica di cui Veyne, antichista, egli stesso
già in età, specialista di Roma, farcisce l’illustrazione, sui commerci, le abitudini, culinarie, suntuarie, ludiche, gli
stili di vita, di tutto dando una dimensione rapportabile al concreto, all’oggi. Insieme con la storia della regina
Zenobia, che disegnò la bipartizione dell’impero, d’Occidente e d’Oriente, e
ambì a farsi imperatrice a Roma.
Il commercio della seta – ma anche delle
spezie – si faceva con ricarichi enormi, “del decuplo e anche del centuplo”: “Un terzo di chilo di seta greggia della Cina si
vendeva per mille dozzine d’uova o seimila tagli di capelli, o per sedici mesi
di salario di un operaio agricolo, indipendentemente dalla sua alimentazione”.
La società era “da Terzo mondo”, lo scarto era incalcolabile “tra una povertà
di massa e enormi fortune, fonti di autorità e di rispetto”. La città sola
contava, la campagna era miserabile. E la città era piccola, quanto bastava ai
ricchi padroni delle terre e agli speculatori
per farsi servire da professionisti, artigiani, negozianti, schiavi: “Una
società non poteva sopravvivere se i tre quarti dei suoi membri non lavoravano
la terra per nutrire tutti ”. Roma era un’eccezione: “Una città non aveva più
di un chilometro di diametro (o la metà, più raramente il doppio), e ancora,
una buona parte di questa superficie era occupata dagli edifici pubblici”. E
poteva solo sorgere in zona irrigua: almeno 200 mm. d’acqua piovana l’anno sono
necessari per consentire l’agricoltura e la pastorizia. Era un mondo molto
connesso: a Roma si sapeva della grande Muraglia, ci sono viaggiatori cinesi
che raccontano di Palmira e altri luoghi. Si parlava ogni lingua, ma la lingua
franca era l’aramaico. Palmira è differente da ogni altra città dell’Impero
anche perché “è, con Edessa, la sola città in cui il dialetto orientale sia
rimasto una lingua ufficiale”.
I muri di cui si vagheggia sono evidentemente
più solidi se culturali. Meglio se porosi, ammonisce l’ottantaseienne storico,
si evita la solitudine, si moltiplicano le vite: “Ostinarsi a conoscere una
sola cultura, la propria, significa condannarsi a vivere una vita soltanto”. Il nazionalismo culturale è del resto
acquisizione recente, dell’Ottocento imperialista.
Paul Veyne, Palmira, Garzanti, pp. 104, ill. € 15
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