domenica 6 novembre 2016

Letture - 279

letterautore

Dickens – “Molto inglese” Chesterston lo trova “nella sua ricca mancanza di attinenza” – nelle “sue storie i passaggi migliori sono le interruzioni e perfino i riempitivi”.

“Elena Ferrante” – È pseudonimo di coppia l’ipotesi, fra le tante, più plausibile. Molti stereotipi riconducono a Starnone, in effetti. La “New York Review of Books”, senza citare Starnone, lo spiega con buoni argomenti: “Il quartetto napoletano è apprezzato per il modo avvincente come narra un’amicizia tra due donne, Lia e Elena. Ma il vero protagonista dei libri, come potrebbe essere in un lavoro premodernista di racconto”, in un racconto neo neorealista,“è l’ambiente stesso, riccamente evocato con un cast di personaggi di contorno che sembra in qualche modo archetipo”. I caratteristi del vecchio cinema: “C’è Pasquale, il comunista; Michele, il criminale; Nino l’imbroglione…. Molti di questi personaggi sono così unidimensionali che spesso sembra come se fossero membri di una famiglia allargata uniti da un mondo riprovevole che nessuno può abbandonare e dove nessuno può maturare individualmente”. La recensione lo dice anche: “Il quartetto napoletano somiglia più al neorealismo degli anni 1930 e 1940, la sua forza deriva da un senso prepotente di determinismo sociale, non di individuazione”.
Il “New Yorker” rinvia invece a un’autrice donna, possibilmente Anita Raja, nella vita moglie di Starnone. Analizzando “Frantumaglia”, là dove “Elena” evoca l’infanzia mal amata, il rapporto estremamente conflittuale figlia-madre, un tema molto personale, raccontato in forme originali. Una narrazione di altro spessore. Un’identità coniugata, coniugale? È possibile, ci sono molte coppie che firmano in Italia con un nome unico, pseudonimo.

Lovecraft – “Uno scrittore” di cui Biorges “è parente nello spirito”, lo dice Colin Wilson, l’allora  “giovane arrabbiato” inglese in “Order of assassins”, 1972. Rilevando che Lovecraft. “al pari di Borges”, era “oggetto di culto tra i giovani”.

Narrazione – Esige dei vincoli, la misura: “Occorre crearsi delle costrizioni, per poter inventare liberamente”, Eco riassume il lavoro di romanziere nell’Ultima della “Postille al Nome della Rosa”.

Pavese – Era a disagio nel Novecento, bellicoso e rivoltoso, tutto politica,. E cioè violenza. Un disagio che gli impedì la partecipazione alla Resistenza, anni che visse con dichiarati sentimenti  repubblichini. È il dato del cosiddetto “Taccuino segreto”, che Lorenzo Mondo ha recuperato su “La Stampa” il 7 agosto del 1990, costituito dai frammenti omessi dal diario pubblicato, “Mestiere di vivere”, che Cesare De Michelis recupera come caratterizzanti del vero Pavese domenica sul “Sole 24 Ore” recensendo “Amor Fati”, la tesi di dottorato di Francesca Belviso, che documenta l’infatuazione di Pavese per Nietzsche, quello della “Volontà di potenza”, al punto da imparare il tedesco nel 1940, a 42 anni, e poi a tradurre alcuni paragrafi della compilazione. C’era questa dimensione eroica nel timido Pavese, asmatico, riformato\renitente alle leve militari, della Resisstenza compresa. Vale per lui come per il suo “gemello” Giaime Pintor, che invece aveva anche animo di combattente. Su questo sfondo De Michelis va oltre, rilevando l’infatuazione di Pavese, già “americano”, per la cultura tedesca irrazionalista: con Nietzsche, Thomas Mann, Junger, Schmitt, Kerényi. Un’infatuazione che prende la parte più matura – ripensata - della sua opera.
De Michelis è anzi più radicale: Pavese era di un altro secolo. “Il Novecento, avanguardistico e rivoluzionario come è stato disegnato, a Pavese restò sempre estraneo e distante, fino al punto di volersene in ogni modo liberare”. Un disagio che ha cercato di mascherare in vari modi, anche con l’impegno politico, e col disimpegno, ma sempre alla ricerca di altro, “il disegno di un’altra cultura”.
È un tema che Furio Jesi aveva proposto e risolto in una nota del 1964, “Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito”, mettendolo, con  Thomas Mann e Károly Kerényi, nel quadro della religio mortis di stampo nichilista che diceva eredità del romanticismo tedesco. Sembrò allora un’analisi pretestuosa: Pavese era “americano”, non aveva interesse alla cultura tedesca. E invece sì: a partire dal 1940 fu “tutto tedesco”, si può dire, assorbito in quella cultura, anche per un effetto trascinamento della personalità volitiva di Giaime Pintor, col quale collaborava. Studiò il tedesco, lesse Nietzsche (che all’epoca era quello della “Volontà di potenza”), ne avviò la tradizione, e con lui cominciò a disprezzare i riti democratici. Fino all’antifascismo. Jesi non aveva conoscenza del “Taccuino segreto”, e tuttavia ne centra l’infatuazione, per il “superomismo” alla “Volontà di potenza” che allora leggeva contagiato. Da qui l’armiamoci e partite, ma senza vergogna. Per un’astensione generale del giudizio. Lo stesso “americanismo” di Pavese era incentrato su questo aspetto, poiché era legato a Walt Whitman, e al Melville di “Moby Dick”, di un ribollente, seppure magmatico, confuso, vitalismo.  

Sade – Al netto delle fantasie e le pratiche erotiche, è la summa della sua contemporaneità, del Settecento, Rousseau compresi. Lo si rileva per quella sorta di totalitarismo intellettuale – la “fissazione” - che il Settecento comporta. Ma più Sade lo è per il negativismo. La società è corrotta. L’umanità è desolata. L’illusione di un Dio misericordioso fa presto a essere spazzata via da un terremoto. La vita è priva di finalità. E viceversa: questa parte destruens si dice da allora sadiana.

Sherlock Holmes - Un poeta e anzi un mistico lo fa Chesterston, “Due note su Sherlock Holmes”: È “la sola creatura letteraria che sia realmente passata nella vita e nella lingua del popolo”, come John Bull o Babbo Natale. L’unico che “sia riuscito a diventare familiare insieme per il colto e e per l’incolto”.
Chesterston vuole “buona letteratura” quella di Sherlock Holmes, “alla sua maniera selvatica e frivola”, e geniale “l’idea di una grande intelligenza saggiata con le cose piccole invece che con le grandi” – “l’unico investigatore immaginario”, lo dice il padre di padre Brown, “che sia un’opera d’arte”. E il suo segreto è l’“arguzia”: “Uno può fingere di essere saggio, ma non può fingere di essere arguto”. Protagonista di racconti sconclusionati, anche sciatti, ma ricchi di spirito d’osservazione, dote duratura. La parte migliore del resto non sono le sue avventure, sempre approssimate, ma le conversazioni con Watson.
L’unica controindicazione di Chesterston è che “Conan Doyle, diffondendo l’idea che la logica pratica è impoetica, abbia potuto incoraggiare l’idea, già tropo comune, che l’immaginazione deve essere distratta. Che il poeta debba essere distratto è una concezione falsa e pericolosa. L’uomo puramente immaginativo non potrebbe mai essere distratto. Percepisce l’importanza delle cose vicine altrettanto chiaramente di quelle lontane”. È a questo punto che Chesterston lo accosta – accosta anzi Conan Doyle, spiritista in petto, ai mistici. Uno che ha “un senso quasi angoscioso della preziosità di ogni cosa”, anche minima – il dettaglio. Anche se il mistico è un non solitario: “Il perfetto mistico è sempre socialmente vigile, è sempre vestito decorosamente”.

Ma, poi, “la vera morale della popolarità delle avventure di Sherlock Holmes risiede nella grande trascuratezza artistica”. Il misticismo? Delle piccole cose: “Conan Doyle ha trionfato, meritatamente, perché ha preso la propria arte sul serio, perché ha profuso cento piccoli tocchi di reale conoscenza e di pittoresco genuino nel romanzetto giallo”.

letterautore@antiit.eu

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