domenica 13 novembre 2016

Letture - 280

letterautore

Corruzione – È “ la nostra unica speranza”, Madre Coraggio nota in Brecht: “Finché c’è quella i giudici sono miti, in tribunale perfino un innocente può cavarsela”.

Germania – La morte è il suo degno non soltanto nell’invettiva dolente di Celan, “Der Tod ist sein Meister”, il ritornello della “Todesfuge”, ma in una corposa costante tradizione letteraria. Fin dagli esordi, le saghe dei Nibelunghi, la canzone di Orlando riciclata sul Reno, le contemplazioni religiose, fino ai romantici, che la morte invocavano e di davano volentieri, tanto più se giovani, Kleist, Günderode. A Wagner, l’apologia della morte da parte di un vitalista perfino ingombrante. E poi, con la sconfitta, all’essere-per-la-morte di Heidegger, che è tutto il senso della vita, e  “L’amore è più freddo della morte” di Fassbinde”. “Che c’è in Germania degno di nota”, scriveva il Campano agli amici in Italia nel 1471? “Soprattutto il fatto che i morti vivono”, mortui vivant. Schopenahuer distingue sottile, come Budda: “Nascendo morimur”. La vita dicendo morte: “La vita migliore è la morte. La morte è il più alto grado di guarigione. La morte è da reputare il vero fine della vita”.
La cosa si nota meglio in G.Leuzzi, “Gentile Germania”: «L’amore soprattutto in Germania è morte. È lì che l’ha imparato il dottor Freud. A partire dalla “Messiade” che inaugura la poesia tedesca: il lungo poema di Klopstock ha una sola storia d’amore, tra due risuscitati. In Bürger, nella famosa “Lenora”, la vergine celebra le nozze nella tomba con lo scheletro amato. Per non dire dei suicidi, da intendere i più “meglio morto che sposato”: l’amore-morte, gioco di parole in italiano, in tedesco è una fissa, il totes Leben, vita morta. Che i tedeschi di fuori Germania attestano meglio, Jelinek, Herta Müller, Celan, Dürrenmatt, Kafka, Rilke. Il tedesco l’incubo chiama Alp, il folletto, una morte in vita.
«La morte è la cosa di cui meno si parla al mondo, fuori che in Germania. Anche questo Stendhal dice meglio: “La morte è una parola senza senso per la maggior parte degli uomini. È solo un attimo, e in genere non lo si avverte”. Ma si può farsene una grandezza, proiettando l’attimo su tutta la vita, e in questo l’amore teutonico è insuperato, Freud non inventa nulla. Sommo diletto è in Schlegel fantasticare la morte dell’amata Lucinde, straziarsi per lei. O in Kleist, e in Rilke. In Kafka non si muore per accidente, malattia o vecchiaia, solo per amore. Tristano e Isotta si dicono che la morte salverà il loro amore per sempre – grave fallacia, l’eternità d’amore: da qui la sinistra fama dell’opera, e a lunga serie di disastri che l’ha accompagnata?
«L’amore biedermeier muore anch’esso giovane, sui vent’anni, nella penombra. E questo si può capire, anticipava la bohème, il tragico piccolo borghese. Ma l’olimpico Goethe che fa morire tutte le eroine d’amore nel “Wilhelm Meister”, il romanzo dell’“arte di vivere”, Sperate, Mariane, Mignon, Aurelia, l’arpista? “La notte appartiene alla morte”, la Sibille thomasnniana sussurra al fratello Wiligis, e qui si può capire, lo eccitava all’incesto. Ma tutti gli altri?
«Di più si muore senza amore, della morte come incantesimo. Finisce per bearsene pure l’anarchico, comunista, superomista Wagner, come un qualsiasi suo personaggio, più spesso che no è lui stesso “notte e nebbia”. Un essere-per-la-morte di cui scrisse a Lizst: “Posseggo ora un calmante che mi aiuta a ritrovare il sonno, ed è un ardente e profondo desiderio della morte. Piena incoscienza, dissolvimento di tutti i sogni, annientamento assoluto: ecco la liberazione totale!” Donde “la morte è un maestro della Germania”, verso insigne di Celan. Che la esuma però fredda, di freezer. I tedeschi sono, padri o figli di Freud, in sonno, in partibus, incogniti, igienisti. Della ragione e la passione.
«Prima della guerra si vedevano molti film tedeschi, c’era una produzione importante in Germania. Che Borges sintetizza così: “Simbologia lugubre, tautologia o vana ripetizione di immagini equivalenti, oscenità, inclinazioni teratologiche, satanismo”. Ci fu un tempo in Germania che si usavano le case dei morti: per scongiurare le morti presunte, le salme vi sostavano alcuni giorni, giuridicamente vive. Per paura delle resurrezioni, temute, non della morte. Le Eve e le Veneri Cranach fa morte, non da ieri, scavate, esangui, laide. Gli uomini, perfino il Cristo, Grünewald fa scheletriti, disseccati o mummificati, quando non pieni di vermi. E Dürer: figure umane in forma di scheletri».

Prima della guerra e della Soluzione Finale, diciamo nella normalità, Hitler poté decretare e fare eseguire senza problemi 16.560 condanne a morte accertate nel dodicennio, tutte di tedeschi-tedeschi. Un record. Oltre alla “morte misericordiosa” indotta, di altre migliaia di essere infelici, non si sa quanti – si sa con un “risparmio” di 89 milioni sui costi ulteriori di vita.
La “morte misericordiosa” portò al risparmio di 89 milioni di marchi, si calcola. Di RM, Reichs Mark, si precisa, non i DM di poi, Deutsche Mark. Ma per un’aspettativa di vita media di dieci anni per ogni deceduto il risparmio non fu piuttosto di 890 milioni? O non di qualche miliardo, cinquemila vittime – questo si sa - essendo state infanti, con un’aspettativa di vita molto superiore? 

Giallo – Il “Decalogo della detective story” ha anch’esso qualcosa, come il titolo, di religioso. Fu rivelato a Ronald Arbuthnott Knox, che era un prete, a premessa dell’antologia di gialli da lui curata nel 1929, “Best Detective Stories of 1928-2”. Knox, autore di una decina di gialli, protagonista l’investigatore di una società di assicurazione Miles Bredon, era un prete importante, convertito da anglicano a cattolico e amico di Chesterston: fu teologo, traduttore in solitario della Bibbia,  e cappellano di Cambridge. Il suo decalogo è semiserio: non un cinese, né veleni sconosciuti,. E serio: non poteri soprannaturali o preternaturali. Altri contestabili: l’autore del delitto non deve’essere il detective,  non ci devono essere persone scambiate, gemelli, doppi o altro. Che sono le trame classiche del genere.
Una parodia, opera del ceco-canadese Josef Skvorecky, “Sins for father Knox”, non tradotta, è riuscita trent’anni fa a contestare tutt’e dieci i comandamenti. Con dieci storie, ognuna trasgressiva di un comandamento. Tenute assieme da Eve Adam, cantante di night-club praghese, che vive le sue avventure in Svezia, a Parigi, New York, Berkeley, quindi in Italia e infine di nuovo a Praga. Più attraente, naturalmente, e intelligente delle polizie locali. Ma l’esito – non voluto? – è di dare ragione al rev. Knox: era meglio evitare.

Ulisse – Un avventuriero, che non vuole tornare a casa, l’“Odissea” è tutta qui – non è l’Occidente, nemmeno topograficamente. Eumeo, Argo, il figlio Telemaco, la vecchia nutrice, la fida Penelope, il padre Laerte, altre avventuroso, argonauta ai suoi tempi, sono lo specchio della vita familiare e tribale, immutabile, da cui Ulisse rifugge. Non è sentimentale il ritorno, non da parte sua, lo si vede sempre dubbioso, sulle sue.
Piero Boitani, che ne scrive da sempre, “L’Ombra di Ulisse” e “Sulle orme di Ulisse”, due libri sui quali spesso ritorna, lo rievoca ancora sulla “Lettura” come il prototipo del’Occidentale, “l’uomo che vuole conoscere il mondo”, e quasi un sostituto di Prometeo che meglio lo incarnerebbe. Ma lo vede da dantista, quale anche egli è, nella forma che Dante ha dato alla figura di Ulisse. Lo dice anche, Ulisse è una proiezione di Dante, della sua libido scientiae: “Ho sempre visto il protagonista dell’“Odissea” come intimamente legato al personaggio di Dante”. E se lo fa confermare dal fisico Tonelli: “È un personaggio forse emblematico di quell’aristotelismo radicale da cui Dante era stato affascinati in gioventù, e dal quale nella «Commedia» voleva prendere le distanze. Ulisse che vuole andare nel «mondo senza gente» è come prigioniero di un mortifero sempre-desiderare, di una sete di conoscenza come coazione a ripetere all’infinito, fino alla perdizione”.
L’Ulisse vero è uno vero, scansafatiche, mignottone, vagabondo, gigolò. Pieno di rifiuti, più che di idee o progetti, vaga a caso. Un Wanderer e quasi un hippie – magari fumava pure.


Viaggi – Andrea Andermann su “Sette”, Dacia Maraini sul “Corriere della sera” stillano nostalgia per i viaggi con Moravia: “Sono trent’anni….”. Sono trent’anni che non si fanno più viaggi dall’Italia. Che già non aveva tradizioni di viaggio, giusto Arbasino, Alvaro e chi altri? Viaggi sporadici, uno di Soldati, uno di Borgese, uno di Cecchi. Moravia scrisse molto di altri mondi, ma non vi ritrova nulla. Neppure in Pasolini, a parte le vigorie della gioventù, dove le ha – l’India per esempio no, non lo attrasse.

letterautore@antiit.eu

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