lunedì 28 novembre 2016

Letture - 282

letterautore

Africa – Si leggono i reportages di viaggio di Moravia in Africa – anche di Pasolini - con senso di angustia. E più per le buone intenzioni di “andare verso l’Africa” (“Andare verso il popolo” è ottimo racconto romano di Moravia). Perché ne emergono spersi, con tutti i loro dollari e le jeep, in un mondo che li sovrasta senza che loro ne abbiano coscienza. Sperduti nel freudismo – Freud in Africa? Peggio se approfondito e non d’accatto. Insettiformi in un mondo povero e poverissimo, malato, disperso, ma senza complessi: I giovani e anche le giovani. In virtù del matriarcato.
Crescono i giovani neri senza complessi, Freud impazzirebbe. Figli di mamma, di allattamento materno prolungato, e a contatto fisico con la madre tutta la giornata, anche al lavoro.

America – “Per capire la vittoria di Trump non occorre andare negli Usa. Basta guardare le fotografie di Robert Frank scattate sessant’anni fa”, Mario Calabresi, “Robinson” di “Repubblica” ieri. Nel 1956. L’effetto Trump è un doppio diretto, al mento?

Bob Dylan – Ma è (anche) scrittore. Premio Pulitzer speciale nel 2008. Ha scritto presto, ai vent’anni, un raccolta di prose libere, “versi, apologhi, giochi di parole, parabole, con gusto del nonsense e saggezza zen”, come recita il blurb editoriale: “Tarantula”, pubblicata poi ai trenta, nel 1971. Che Feltrinelli ha rimesso in circolazione, con una traduzione rivista e una spessa guida alla lettura. Che dà molto credito all’intenzione di creare un’opera di avanguardia, com’era allora alla moda, “con la deliberata intenzione di sfidare la lingua scritta e di condurla ai limiti estremi dell'ambiguità fonetica e del senso”.
Non è la sola prova. La raccolte delle sue poesie-canzoni prende già due spessi volumi nell’edizione italiana. E ha avviato da un quindicennio una trilogia autobiografica, di cui la prima parte, “Chronicles 1”, è tradotta. Questo primo volume spazia liberamente da fine anni 1960, dal Greenwich Vilage di New York, per un ventennio. Con Woodstock, San Francisco, New Orleans, “città dell’anima”: una geografia che è anche un panorama interiore.
I giurati del Nobel erano sulle sue tracce già dal Pulitzer del 2008. La motivazione del premio speciale menziona “il profondo impatto sulla musica popolare e la cultura americana, segnato da composizione liriche di straordinaria potenza poetica”. Anche allora ci furono reazioni indignate della comunità letteraria, Jonathan Lethem in testa (“è come mettere Elvis Presley in smoking, non gli sta proprio bene”). Compreso uno studioso di Dylan, Christopher Ricks, professore di Ccienze umane alla Boston University, autore di “Dylan’s Visions of Sin”. L’organizzazione del Pulitzer si difese: “Non è che ci siamo alzati e ci siamo detti: «Perché non darlo a Dylan?» C’è una storia dietro, e un sacco di deliberazioni e sforzi per capire chi ne sarebbe stato veramente degno”. Qualcuno aveva proposto Frank Zappa, qualcun altro Stevie Wonder.
L’uscita ritardata di “Tarantula” era stata peraltro preceduta da un dottorato onorario dell’università di Princeton nel 1970, in quanto “inquieta e impegnata coscienza della giovane America”.
La sua “carriera” di scrittore, più di quella del musicista, è punteggiata di ripensamenti e lunghi silenzi. Quello in corso sul Nobel richiama il primo, sulla pubblicazione di “Taratula” – di cui l’editore di allora, la McMillan, dà ampi cenni nell’introduzione alla riedizione italiana. La raccolta, già alle ultime bozze e al visto si stampi, anzi distribuita in anteprima a molti giornali e critici, fu bloccata da Dylan senza un perché, e ripresa solo sei anni dopo, ancora senza motivo. Il dottorato di Princeton dirà in “Chronicles 1” un “altro trucco”: “Non potevo crederci! Fregato ancora una volta… Stavo perdendo ogni genere di credibilità”. Aveva già messo in berlina la cerimonia, in “Day of the Locusts”, il giorno delle locuste – “sicuro, ero contento di esserne uscito vivo”.
Anche per il Pulitzer tacque e non si fece trovare. Nemmeno per interposta persona, agenti o intimi. Anche allora aveva altri impegni, prima e dopo il premio, che si celebrava a pranzo il 29 maggio a New York: il 28 doveva essere in Danimarca, il 30 in Norvegia. Un aspetto che Lethem ha messo in risalto nel 2008: “Sono cose di un mondo non dylanologico”, i premi, le lauree, le celebrazioni, che Dylan “quasi sempre ammazza con qualche performance aspra, discordante o  insofferente”. Avendo già teorizzato in “Blonde on blonde” (Absolutely sweet Marie”): “Per vivere fuorilegge, devi essere onesto”.
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Editor – Bassani lesse la prima pagina del “Gattopardo” “nella guardiola del portiere del palazzo in cu viveva Elena Croce”, racconta la figlia Paola in “..”, “e si era subito reso conto della sua eccezionalità”.  Vittorini lo lesse tutto e lo fece leggere ai consulenti Einaudi, e non lo capì. Per la politica, certo, un libro che comincia col rosario, ma non solo.
In realtà, il rifiuto di Vittorini è molto rispettoso. Lungo e circostanziato, un’eccezione per un esordiente maturo. E motivato. Ma in modo artificioso: che la narrativa vi è inficiata da notazioni di costume (“saggistiche”). Nel 1957 era forse anatema, per una casa editrice in linea, e per lo stesso ribelle Vittorini, pubblicare un lodatore del tempo che fu. O forse Vittorini ha voluto risparmiare a Einaudi la presenza nella letteratura che resta del secondo Novecento – c’entra con Calvino, ma Calvino era editore di suo. 

Proust - Piperno lo vuole razzista come Céline
E come Wagner, eccetera.
Lega i due scrittori per una serie di fattori: la “centralità” dello stile, l’ipocondria, il nichilismo, la guerra. Ma, poi, Céline non ce l’aveva con Proust, senza diminuirlo, ma veemente, contro il “francese giudaizzato”? Si, però anche Proust ha più di una tirata contro gli ebrei. Attraverso il barone di Charlus, anche attraverso il narratore: “Il modo in cui Proust  sottolinea le differenze, persino somatiche, tra gli aristocratici e gli ebrei, tra Saint-Loup e Bloch, tra Madame de Guermantes e Rachel, è di stampo inequivocabilmente razzista”.
La cosa è vera e non è vera. Proust stava bene e benissimo, non solo con la sua mammetta, ma anche con Madame Strauss e altre gentildonne – e qualche consolatore – di origine semita. E comunque non faceva campagna contro gli ebrei. D’altra parte, è vero che anche il Céline pampflettista frequentava e stimava donne ebree. L’antisemitismo va risistemato, quello di prima del 1942 e della Soluzione Finale – anche, per esempio, per farsi una ragione della hargne di Irène Némirovsky, che pure si riconosceva e voleva ebrea, malgrado il tardo battesimo dopo le leggi razziali.

Sherlock Holmes – Ha lettrici oltre che lettori? È l’ultimo cavaliere errante, seppure al chiuso di una stanza – anzi per questo più originale: errante in una stanza. Senza l’obbligo di riordinare. Potendosi fumare una vita. Senza donne e senza bambini – che si direbbero due limitazioni, ma le assenze concorrono alla semplificazione, al delirio solitario. È certamente un onanista.
Dire “lettori” è improprio per l’illeggibile Conan Doyle,: piuttosto saltatori. Ma anche questo è un esercizio di bravura: Sherlock Holmes se lo costruisce il lettore.

Vico – “Questo anti-Descartes in cui si scopre oggi un precursore del pensiero antropologico” – Claude Lévi-Strauss, “Razza e cultura”, 1971 cap. 2.

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