La morte ne ha afferrato l’immagine e la
storia. Una tragedia, con la connessa catarsi. Mentre di fatto sono state la
fine sostanziale della Repubblica, quella della ricostruzione e del boom, delle
libertà civili, della stabilità politica, per quanto relativa. L’uomo dell’egemonia
Dc a tutti i costi. Della mediazione interminabile e inconclusiva, dove
s’innesta e dilaga la corruzione.
La morte violenta ne ha afferrato l’immagine,
e di più poi il post-Pci opportunista di Veltroni. Che si cercò gli antenati
nella Dc, in Dossetti e Moro. Con la diffusione della foto del 7 maggio 1977,
di Moro e Berlinguer che si stringono la mano prima di cominciare la trattativa
per il solito governicchio Andreotti: l’unica in cui i due uomini politici
sorridono – si sorridono. E la statua vent’anni dopo a Maglie – alla presenza
dell’incredibile Scalfaro, altro uomo di destra - di Moro con “l’Unità” in
tasca. Moro non leggeva “l’Unità”, e non la portava in tasca. Moro non leggeva
i giornali, anzi non ci parlava, nemmeno con le televisioni. Non parlava: era
l’uomo politico arcano, che annunciava e non discuteva. Annunciava magari dopo
trattative, anche estenuanti, anzi soprattutto estenuanti, dopo le quali
annunciava il meno possibile.
Non fosse per la tragica fine, non si
saprebbe dove mettere Moro nella storia della Repubblica, che ora si celebra.
Certamente non sugli altari. “Lo statista
il suo dramma” Formigoni, storico pur simpatetico, usa come titolo non
per sottolinearne la fine ma la politica. La difficoltà di Moro di “fare”
politica, benché l’abbia sempre praticata, da quando era ragazzo, indeciso a
tutto. Secondo alcune testimonianze di parte comunista indeciso nel 1944 se
aderire al Pci o alla Dc. In ancorato in ambito cattolico, e negli anni universitari
dirigente nazionale della Fuci, la gioventù cattolica, uno dei due puledri di
razza del cappellano della Fuci, mons. Montini, che sarà papa Paolo VI – l’altro
era Andreotti. “Il suo modo di fare politica, e la sua peculiare leadership,
erano in effetti difficili da capire”, sintetizza Formigoni. Che lo dice via
via “prolisso”, “noioso”, “pigro insabbiatore delle novità”. Oggi si direbbe l’apostolo
del non fare. Che in politica è distruggere.
Formigoni, storico navigato, la tira in
lungo per non stroncare il suo personaggio. Non è il solo, è difficile leggere di
Moro – a prescindere dal caso umano. Che cosa? Mentre il suo modo di fare
politico e i suoi governi, dal 1963 al 1978, hanno azzoppato, costantemente,
concordemente, forse definitivamente, la
rigogliosa Repubblica. È stato fatto passare per l’artefice del compromesso
storico, dell’alleanza di governo Dc-Pci. Che lui in effetti promosse, ma come
sempre per farla fallire. Su questo Formigoni ha una parola chiara da dire: l’apertura
a Berlinguer era intesa a “consolidare il sistema democratico e accompagnare l’evoluzione
politica e ideologica del maggior partito di opposizione, senza cedere per
principio a logiche strettamente consociative, oppure allo schema
berlingueriano del compromesso storico”. E così via, una serie di distinzioni
che valgono per quello che sottintendono: una presa di distanza dello storico. Mentre
la sostanza fu non la democratizzazione del Pci, figurarsi (il Pci ha preferito
suicidarsi per non democratizzarsi), ma proprio la logica consociativa, dietro
i tre o quattro governicchi Andreotti cui Moro presiedette dopo il 1975 – fino alla
sconfitta finale del Pci, la prima, al voto del 1979. La sua storia in fondo è
il cap. XIX dei “Promessi sposi”, la politica è la stessa del Conte Zio, del “troncare,
sopire, sopire, troncare”, non ha altro senso la sua politica dello smussare le
differenze.
In breve: Moro ha fatto fallire il centro-sinistra
con il Psi, il periodo più fecondo di buone leggi, per poi avviare il
fallimento del Pci. Il “suo” presidente del consiglio del compromesso storico
era Andreotti, altro uomo del non fare, ma luciferino. Col quale aveva appena
finito – cioè non finito in realtà - di regolare una lite colossale per il controllo
dei servizi segreti. Avviata nel 1968 con la rivelazione a Iannuzzi e Scalfari
del Piano Solo, il golpe tenuto in caldo negli anni di Moro al centro-sinistra.
Rinfocolata nel 1974, alla vigilia del “compromesso”, con un violento attacco
al capo dei servizi segreti Miceli, un generale voluto e protetto da Moro. A un certo punto Formigoni non si
sottrae all’ipotesi dei servizi segreti deviati che complottano contro lo Stato
e quindi contro Moro: ma Moro è stato il dominus dei servizi segreti per quindici
anni.
Anche questa è una dimensione di Moro che si sottace, una triplice dimensione: il penchant per il lato oscuro del governo, per i neofascisti, e per il sottogoverno. L’attribuzione vigile a uomini di sua fiducia dei posti negli uffici e gli enti pubblici. L’Eni, l’Enel, la Rai, e altri enti minori. Fino ai conti in Svizzera del suo importante segretario di una vita, Sereno Freato – detto “assegno in bocca” dagli imprenditori che chiedevano udienza. E compresi i servizi segreti. Ai quali Moro volle uomini, De Lorenzo e Miceli, che in disgrazia confluiranno nel Msi. Del resto Moro era stato fautore risoluto di “Stay behind”, l’organizzazione paramilitare anticomunista in ambito Nato. E subito dopo di Tambroni – alla cui caduta aveva pronto un rifugio in Svizzera.
Anche questa è una dimensione di Moro che si sottace, una triplice dimensione: il penchant per il lato oscuro del governo, per i neofascisti, e per il sottogoverno. L’attribuzione vigile a uomini di sua fiducia dei posti negli uffici e gli enti pubblici. L’Eni, l’Enel, la Rai, e altri enti minori. Fino ai conti in Svizzera del suo importante segretario di una vita, Sereno Freato – detto “assegno in bocca” dagli imprenditori che chiedevano udienza. E compresi i servizi segreti. Ai quali Moro volle uomini, De Lorenzo e Miceli, che in disgrazia confluiranno nel Msi. Del resto Moro era stato fautore risoluto di “Stay behind”, l’organizzazione paramilitare anticomunista in ambito Nato. E subito dopo di Tambroni – alla cui caduta aveva pronto un rifugio in Svizzera.
Un altro aspetto da rivedere. Il santino
del quasi-compagno vuole Moro anti-americano. Perché Kissinger ne parlava
sorridendo. Ma Kissinger ne parlava sorridendo perché lo sapeva il più
“amerikano” dei democristiani, e anzi dei suoi governi, considerando
l’inattendibilità – per i criteri Usa – anche dei socialisti. Confermata dalla “comprensione”
nel 1963 per l’avventura del Vietnam. Senza manie neutralistiche, e senza
spirito d’avventura nell’allora Terzo mondo.
Pasolini lo diceva “il meno coinvolto”
nella corruzione? Pasolini lo diceva anche “la lingua della menzogna”. Moro si
oppose vivamente all’“Io so” di Pasolini, urlando in Parlamento, per una volta
senza ritegno: “Non ci processerete nelle piazze”. E qui aveva ragione: perché
non dargliela?
Guido Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Il Mulino,
pp. 486 € 28
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