martedì 15 novembre 2016

Moro senza “l’Unità”

La morte ne ha afferrato l’immagine e la storia. Una tragedia, con la connessa catarsi. Mentre di fatto sono state la fine sostanziale della Repubblica, quella della ricostruzione e del boom, delle libertà civili, della stabilità politica, per quanto relativa. L’uomo dell’egemonia Dc a tutti i costi. Della mediazione interminabile e inconclusiva, dove s’innesta e dilaga la corruzione.
La morte violenta ne ha afferrato l’immagine, e di più poi il post-Pci opportunista di Veltroni. Che si cercò gli antenati nella Dc, in Dossetti e Moro. Con la diffusione della foto del 7 maggio 1977, di Moro e Berlinguer che si stringono la mano prima di cominciare la trattativa per il solito governicchio Andreotti: l’unica in cui i due uomini politici sorridono – si sorridono. E la statua vent’anni dopo a Maglie – alla presenza dell’incredibile Scalfaro, altro uomo di destra - di Moro con “l’Unità” in tasca. Moro non leggeva “l’Unità”, e non la portava in tasca. Moro non leggeva i giornali, anzi non ci parlava, nemmeno con le televisioni. Non parlava: era l’uomo politico arcano, che annunciava e non discuteva. Annunciava magari dopo trattative, anche estenuanti, anzi soprattutto estenuanti, dopo le quali annunciava il meno possibile.
Non fosse per la tragica fine, non si saprebbe dove mettere Moro nella storia della Repubblica, che ora si celebra. Certamente non sugli altari. “Lo statista  il suo dramma” Formigoni, storico pur simpatetico, usa come titolo non per sottolinearne la fine ma la politica. La difficoltà di Moro di “fare” politica, benché l’abbia sempre praticata, da quando era ragazzo, indeciso a tutto. Secondo alcune testimonianze di parte comunista indeciso nel 1944 se aderire al Pci o alla Dc. In ancorato in ambito cattolico, e negli anni universitari dirigente nazionale della Fuci, la gioventù cattolica, uno dei due puledri di razza del cappellano della Fuci, mons. Montini, che sarà papa Paolo VI – l’altro era Andreotti. “Il suo modo di fare politica, e la sua peculiare leadership, erano in effetti difficili da capire”, sintetizza Formigoni. Che lo dice via via “prolisso”, “noioso”, “pigro insabbiatore delle novità”. Oggi si direbbe l’apostolo del non fare. Che in politica è distruggere.
Formigoni, storico navigato, la tira in lungo per non stroncare il suo personaggio. Non è il solo, è difficile leggere di Moro – a prescindere dal caso umano. Che cosa? Mentre il suo modo di fare politico e i suoi governi, dal 1963 al 1978, hanno azzoppato, costantemente, concordemente,  forse definitivamente, la rigogliosa Repubblica. È stato fatto passare per l’artefice del compromesso storico, dell’alleanza di governo Dc-Pci. Che lui in effetti promosse, ma come sempre per farla fallire. Su questo Formigoni ha una parola chiara da dire: l’apertura a Berlinguer era intesa a “consolidare il sistema democratico e accompagnare l’evoluzione politica e ideologica del maggior partito di opposizione, senza cedere per principio a logiche strettamente consociative, oppure allo schema berlingueriano del compromesso storico”. E così via, una serie di distinzioni che valgono per quello che sottintendono: una presa di distanza dello storico. Mentre la sostanza fu non la democratizzazione del Pci, figurarsi (il Pci ha preferito suicidarsi per non democratizzarsi), ma proprio la logica consociativa, dietro i tre o quattro governicchi Andreotti cui Moro presiedette dopo il 1975 – fino alla sconfitta finale del Pci, la prima, al voto del 1979. La sua storia in fondo è il cap. XIX dei “Promessi sposi”, la politica è la stessa del Conte Zio, del “troncare, sopire, sopire, troncare”, non ha altro senso la sua politica dello smussare le differenze.
In breve: Moro ha fatto fallire il centro-sinistra con il Psi, il periodo più fecondo di buone leggi, per poi avviare il fallimento del Pci. Il “suo” presidente del consiglio del compromesso storico era Andreotti, altro uomo del non fare, ma luciferino. Col quale aveva appena finito – cioè non finito in realtà - di regolare una lite colossale per il controllo dei servizi segreti. Avviata nel 1968 con la rivelazione a Iannuzzi e Scalfari del Piano Solo, il golpe tenuto in caldo negli anni di Moro al centro-sinistra. Rinfocolata nel 1974, alla vigilia del “compromesso”, con un violento attacco al capo dei servizi segreti Miceli, un generale voluto e protetto da Moro. A un certo punto Formigoni non si sottrae all’ipotesi dei servizi segreti deviati che complottano contro lo Stato e quindi contro Moro: ma Moro è stato il dominus dei servizi segreti per quindici anni.
Anche questa è una dimensione di Moro che si sottace, una triplice dimensione: il penchant per il lato oscuro del governo, per i neofascisti, e per il sottogoverno. L’attribuzione vigile a uomini di sua fiducia dei posti negli uffici e gli enti pubblici. L’Eni, l’Enel, la Rai, e altri enti minori. Fino ai conti in Svizzera del suo importante segretario di una vita, Sereno Freato – detto “assegno in bocca” dagli imprenditori che chiedevano udienza. E compresi i servizi segreti. Ai quali Moro volle uomini, De Lorenzo e Miceli, che in disgrazia confluiranno nel Msi. Del resto Moro era stato fautore risoluto di “Stay behind”, l’organizzazione paramilitare anticomunista in ambito Nato. E subito dopo di Tambroni – alla cui caduta aveva pronto un rifugio in Svizzera.
Un altro aspetto da rivedere. Il santino del quasi-compagno vuole Moro anti-americano. Perché Kissinger ne parlava sorridendo. Ma Kissinger ne parlava sorridendo perché lo sapeva il più “amerikano” dei democristiani, e anzi dei suoi governi, considerando l’inattendibilità – per i criteri Usa – anche dei socialisti. Confermata dalla “comprensione” nel 1963 per l’avventura del Vietnam. Senza manie neutralistiche, e senza spirito d’avventura nell’allora Terzo mondo.
Pasolini lo diceva “il meno coinvolto” nella corruzione? Pasolini lo diceva anche “la lingua della menzogna”. Moro si oppose vivamente all’“Io so” di Pasolini, urlando in Parlamento, per una volta senza ritegno: “Non ci processerete nelle piazze”. E qui aveva ragione: perché non dargliela?
Guido Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, Il Mulino, pp. 486 € 28

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