Sette racconti dal vivo, scritti tra il 1916
e il 1928, riniti in volume dallo stesso Zanotti Bianco nel 1959, quattro anni
prima della morte, a 74 anni. Una vita piena di cose fatte. Archeologo,
protagonista con Paolo Orsi, Giuseppe Foti e
Paola Zancani Montuoro degli scavi in Magna Grecia, tra Campania e
Calabria. Parte attiva nel 1922 del Comitato di soccorso ai bambini in Russia,
un paese e una cultura che conosceva e sentiva proprie. Soprattutto creatore e
animatore dell’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno
d’Italia, con la quale creò e tenne in vita, su base volontaria, numerosi
asili, scuole (rurali, serali, elementari), dispensari, contro la malaria e la
fame, nonché opifici e tecniche di lavorazione, e assistenza alla vendita, specie
sull’Aspromonte, dove spostò di fatto la residenza, fissa a partire da 1912, fino
al 1928, quando Mussolini ne impose l’allontanamento.
Il miglior racconto di Zanotti Bianco è
la sua vita. Ma anche queste sue prove: un’infilata di racconti che a leggerli
a distanza fanno la storia. Partendo dal “Ritorno”, un’anticipazione in tutti i
sensi di “Tutti a casa”, su una marcia nella notte in montagna nel 1916, senza
senso, se non a rischio di morte. La sala d’attesa di “Catanzaro Lido”,
racconto del 1919, epitome dei vizi del Sud e dell’Italia, un esercizio
virtuosistico. “Una notte sul Volga”, 1922, resoconto di una missione umanitaria,
tra un’umanità denutrita e abbandonata, che muore di tifo, di peste.
L’assassinio a Reggio Calabria di un ispettore scolastico, vedovo con cinque
figli, che non ha concesso il trasferimento in città di una maestra da un paese
di montagna, 1921 – “da chi ha ereditato questa gente la mancanza di misura,
che gli Dei dell’Ellade, sì familiari un tempo in queste contrade, punivano
crudelmente come figlia dell’empietà?” Ancora una missione umanitaria, tra i
profughi armeni attendati a Bari. Il sorgere del sole sul Montalto, la vetta
dell’Aspromonte. Niente di eccezionale, ma il racconto ne è robusto.
La “spuntata” a Montalto, “la creazione
del mondo”, è di forte commozione: “Morti di stupore, come assistessimo al miracolo
della creazione del mondo, erravamo da una sponda all’altra della nostra
vedetta, mentre nel mare lentamente emergeva tutt’intera la punta del piede
d’Italia, la Sicilia, che da lassù sembrava unita al continente, e sparse in
quell’infinito, petali disseminati dal vento, le Eolie”. Nella luce che trascolora
nelle gradazioni dello spettro solate.
Ultimo il viaggio ad Africo, nel
racconto che dà il titolo alla raccolta. L’atto di fondazione di una leggenda
quasi secolare. L’iniziatore di un genere, si può dire: della negazione di ogni
barlume di umanità a quella comunità. Che avrà molte riprese d’autore, e
tuttora si pratica, a opera degli stessi africoti.
La testimonianza resta viva. E
imperdibile è l’uso dei dialetti, specie, in lunghi racconti, di quello apromontano,
così preciso, senza una sbavatur a, ed efficace: pieno di lessemi insostituibili,
e delle forme grammaticali e sintattiche le più lontane dall’italiano o neolatino,
sempre significanti – un linguaggio di vita, s’intuisce, praticato, e non
appiccicato come userà in letteratura.
Umberto Zanotti Bianco, Tra la perduta gente,
Ilisso-Rubbettino, pp. 139, ril., € 5,90
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