Una svelta incursione nel fenomeno Trump,
“Un fenomeno americano” è il sottotitolo. Visto purtroppo come fenomeno da
baraccone. Anche per Ferraresi, studioso di storia americana (“Obama, l’irresistibile
ascesa di un’illusione”, “Introduzione alla politica americana”),
corrispondente da New York del “Foglio”, lo sfondo è sempre delle
“americanate”, incomprensibili ai probi e colti europei. E Trump resta quello
dei cartoons, megalomane, riccastro,
evasore, razzista, misogino, violentatore, spia di Putin. Ma non c’è altro, Trump
è unico in libreria
Lo scaffale politico è solitamente ingombro.
Magari di libri usa e getta, ma l’offerta è considerevole: ci sono stati
moltissimi libri su Berlusconi, cento, duecento?, molti su Renzi, parecchi sui
Clinton, Hillary compresa, su Trump non ce ne sono. Eccetto questo di Ferraresi.
Che ha il merito di averne afferrato la consistenza. Anche se critico, anche
lui, più che informato – è tutto un mettere le mani avanti, alla cieca, come
contro una peste. E ne aveva afferrato in anticipo la chiave del successo
politico: “Il trumpismo è il lettino dello
psicanalista di una nazione bipolare. Il messaggio ambiguo e liquido si presta
a un ascolto selettivo: il pubblico filtra e trattiene ciò che vuole, tutto il
resto – pensa – è una figura retorica, è la provocazione di un artista
contemporaneo, sarebbe sciocco intenderla in senso letterale. È il modo in cui
viene pronunciato a trasmettere vitalità, il tratto dominante di questo leader
postideologico”. E il senso del suo messaggio elettorale: “Vi darò tutto”.
Un candidato che “riflette”
i bisogni e i desideri dell’elettore, più che argomentarli in astratto. E in quel messaggio apparentemente insignificante,
o assurdo, coagula invece la storia, il senso della storia, degli ultimi trenta-quarant’anni:
“tutto” è quello che vi aspettavate e vi è stato tolto. Le “proposte scioccanti”
e il “linguaggio sboccato” sono un modo come un altro per dominare, come al candidato
è necessario, un fronte mediatico al 99 per cento ostile.
Non solo. Il lettore comune è arrivato alle elezioni di
martedì col senso di un’America compiuta, sotto il lungo segno di Obama.
Ferraresi sapeva che non è vero: l’America dice “ferita”, col supporto di Robert
Putnam, “Our
Kids: the American Dream in Crisis”. Dove si documenta la rottura per
la prima volta del cardine del Sogno Americano: che i figli avranno una sorte
migliore dei padri, che si vive per migliorarsi e migliorare. Una disillusione epocale,
che Ferarresi documenta viva, indirettamente, anche nei sostenitori di Sanders,
il concorrente di Hillary Clinton alla candidatura democratica.
Ferraresi cita la
proliferazione dei suicidi, mai cosi tanti, e il ritorno dell’eroina e dell’alcolismo.
Avrebbe potuto citare, da cronista, il fallimento della riforma sanitaria di
Obama, “Obamacare”, per il costo dell’assicurazione. L’eccessivo numero di “scoraggiati”,
che si esiliano dal mercato dal lavoro, e di posti interinali, a paghe infime,
i due “fenomeni” che sono alla base della fenomenale riduzione della
disoccupazione al tasso fisiologico del 5 per cento: il monte ore lavorato
negli Usa è più basso che nel 2008. I cinquanta milioni di americani, o poco
meno, che ricorrono a sussidi pubblici per sfamarsi.
Resta che Trump ha vinto
in positivo, non in discesa, non per abbandono. Ha sconfitto una rivale che
partiva con molti vantaggi: essere donna, essere stata segretario di Stato,
nonché senatrice, e first Lady per otto anni, avere il sostegno di tutto il suo
partito e di una buona metà del partito di Trump, i Bush in testa, avere il sostegno
quotidiano del presidente in carica, e quello illimitato della grande finanza,
nella fondazione familiare, nei media, nell’editoria, avere il sostegno
dell’Europa e dei potentati arabi. Il voto per Trump è stato un voto per, non
un voto contro – Ferraresi lo sapeva, ma forse non convinto: dovrà scriverne un
altro.
Mattia Ferraresi, La febbre di Trump, Marsilio, pp. 159 € 12
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