“La
natura dei luoghi crea i comportamenti e fissa i tipi etnici”, così Andrea
Giardina, il latinista, in “L’Italia romana. Storie di un’identità incompiuta”,
a proposito del brigantaggio meridionale. E altrove dove? In Romagna, forse –
in realtà sull’Appenino tosco-emiliano. Ma sulle Alpi? Anche sull’Appennino
Ligure. Le determinanti geofisiche non sono determinanti.
Nella
Valutazione della Qualità della Ricerca del Miur, il ministero dell’educazione
pubblica, appena completata per gli anni 2011-2014, la piccola università Magna
Grecia di Catanzaro figura al 23mo posto tra le 132 strutture censite, e
l’università del Sud che ha più titolo alla “parte premiale del Fondo di
Finanziamento Ordinario” dello Stato per il 2016 – per le ricerche di diritto e
di medicina. Caso unico al Sud, insieme con L’Orientale di Napoli e il Politecnico
di Bari – ma con un coefficiente molto milgiore, 4, rispetto all’1 degli altri
due istituti. Non è una notizia di cui i giornali calabresi ritengono di menare
vanto. O
L’alba
al Montalto
“Morti di stupore”, così Umberto Zanotti
Bianco racconta la “spuntata”, l’alba, sul Montalto (“Tra la perduta gente”,
104), “come assistessimo al miracolo della creazione del mondo, erravamo da una
sponda all’altra della nostra vedetta, mentre nel mare lentamente emergeva
tutt’intera la punta del piede d’Italia, la Sicilia, che di lassù sembrava
unita al continente, e sparse in quell’infinito, petali disseminati dal vento,
le Eolie. Il fondo azzurro cupo dell’atmosfera andava smorendo, trasformandosi
in colori dolci e tenui da arcobaleno, dal viola all’avorio antico, al roseo,
che si ravvivavano e trasmutavano di continuo”. La scala dei colori in
movimento come in un caleidoscopio. “Ed ecco, duro e improvviso come un colpo
di cembalo in quel silenzio senza rmori terreni, il primo dardo del sole, non
ancora emerso, configgersi nelle nevi dell’Etna. Ecco miriadi di dardi d’oro
colpire tute le vette, e infine l’astro ilare e giovane balzare su…”
La Montagna è compagna. Dice Zanotti
Bianco poco più in là: “Questo l’ascetico insegnamento che ci dà la montagna e
al quale richiama il veggente di Célico: “nostrum
est ascendere super speculum montis”. Veggente di Célico è Gioacchino da
Fiore.
Autobio
Avevamo anche noi i Neet, i Not Engaged
in Education, Employment or Traning. Che ora non sono più prerogativa paesana,
del maggiorascato, delle famiglie patriarcali. Che uno o più figli minori
confinavano alla singletudine. Scapoli, che di preferenza stavano in casa. Dove
fumavano.
Il piccolo paese un tempo sembrava
grande. Con quartieri minimi, minutamente dettagliati, che erano mondi conchiusi:
l’Oratorio, i Lazzari, la Strada di sotto, lo Stretto, Delìa, le Case Popolari,
Sant’Elia, San Francesco, Buzzurra, etc.
E il territorio circostante minutamemte denominato, Misuraci, Ieraci, Gelomargo,
Mangiavacche, Mara Monica, Santa Marini…
Eravamo iperpatriottici nella Grande Guerra.
Come tutti, ma i borghesi nostri di più. Abbiamo perfino ospitato – guai a
ricordarglielo? – gli sfollati friulani e giuliani di Caporetto, i 250 mila che
attraversarono il Piave in discesa. Giovanna Procacci ne calcola un quarto di
milione, 250 mila. Molti furono ospitati nell’estremo Sud, e anche da noi.
Un Comitato di Mobilitazione Civile fu
costituito il 14 giugno 1915, con tutti i notabili del paese, una cinquantina
di persone: i venti consiglieri comunali, gli arcipreti delle due parrocchie,
gli insegnanti (elementari) “di ambo i sessi”, i farmacisti, l’ufficiale
sanitario, i presidenti del Consorzio Stradale, delle Società Operaie, delle
Confraternite religiose, del Corpo musicale, il maresciallo, l’ingegnere, il notaio,
e una diecina di piccoli proprietari. Che tre giorni dopo fecero una prima
raccolta fondi in Paese, per sovvenire alle famiglie povere dei militari, tanto
più se feriti. Nonché alla Croce Rossa Italiana. Una contabilità minuta fu tenuta dal
Comitato, che Raffaele Leuzzi rispolvera in “Il contributo del territorio di
Mesogaia alla Grande Guerra”. Compreso il gran numero di confezioni, di
mutande, camicie, fazzoletti, calze e “pezze da piedi”, opera di “mamme e
sorelle, con l’aiuto di bravi sarti”.
Dopo Caporetto, il Comitato cittadino si
mobilitò anche per gli sfollati dal Friuli e dal Veneto. Con delibera del 7
novembre stabilì l’assistenza, mediante raccolta separata, a queste famiglie.
Con alimenti, indumenti, ricoveri, assistenza medica e quant’altro si rendesse
necessario “per confortare italianamente i loro disagi e lenire le loro
sofferenze morali”. Successivamente il
Comitato si congratula con se stesso e con la cittadinanza, per avere accolto
“con sincera effusione di affetto i nostri fratelli profughi di guerra,
assolvendo l’alto e gradito compito di prodigare le prime bisognevoli cure per
il vitto ed il ricovero delle famiglie friulane, che affluirono numerose al
nostro paese”.
Gli abitati rurali – le “torri” – sono i
choria.
Grecale o Levante? Il tema di continua
discussioni con Pasquale C. era senza esito: Grecale e Levante sono lo stesso
vento, quello di Nord Est. Di tre giorni, insidioso, in ogni piega dell’abigliamento, dei tetti, delle
connessure, avvolgente, è quello che dà la forma contorta agli ulivi, rumoreggiante.
E anche, bisogna dire, detergente: ripulisce l’aria. Di Nord Est rispetto al
punto di mare prossimo a Creta dove convenzionalmente si situa il centro
della Rosa dei Venti.
Il Grecale (o Levante…) spira da Nord
Est a Sud Ovest. Così, sempre prendendo a riferimento la costa cretese, a Sud
Ovest della quale c’è la Libia, è Libeccio il vento opposto, da Sud-Ovest verso
Nord-Est – lo Scirocco, che sta per vento di Sud-Est\Nord-Ovest, è il vento che
viene dalla Siria. Il Maestrale, da Nord-Ovest a Sud-Est, è desuntoda magistra
o via maestra, con riferimento a Roma, e a Venezia.
Paese di artigiani e piccoli agricoltori,
modernamente borghese – oggi prevalentemete impiegati. Con una frangia di pastori, da ultimo paese di
montagna del versante tirrenico dell’Aspromonte, confinata in un quartiere
piccolo di uno dei due quartieri del paese, anche un po’ isolato: i Lazzari. O Arretu
Livari, dietro gli ulivi che contornano l’abitato, sulla vallata posteriore.
Non di forestieri, non c’era questa
connotazione, ma comunque di “genti d’arretu marina”, della marina di dietro. Di
dietro cioè la Montagna, del versante jonico. Di Natile e di Careri – detti per
questo anche i natiloti. Non di San Luca: San Luca era antagonista, che si era
appropriato come Comune nel 1929, grazie a un compiacente segretario comunale
nativo dello stesso San Luca, di buona parte della Montagna, a danno nostro. Detti anche,
spregiativamente, zangrej, nel senso
di sporchi e primitivi, calzati ancora di mitti,
le cioce – questa calzatura, fatta di ritagli di pneumatico, tenuti su da
stringhe di corda o da fil di ferro, si ricorda ancora attorno al 1950.
La gente di San Luca era detta della
Madonna della Montagna. Cioè di Polsi, che invece è un sito disabitato.
Tutti tamarri – pastori. Con le cioce.
Rocco era detto U cardolu per essere uno
di Cardeto, ma nessuno l’ha mai saputo. Era “cardolo” lo zampognaro, quando usava
venire in città, per Natale o altre feste: a Reggio l’appellativo richiama -
richiamava, quando ancora la lingua parlata era caratterizzata - il suonatore
di zampogna, modesto e insistente, applicato, con danzatore-danzatrice d’accompagno.
Corrado Alvaro ha in più posti la “bella
cardola”. Nella conferenza “Calabria” che tenne a Firenze nel 1931, ricorda “le
donne del villaggio di Cardeto, dove menano le gambe fin da piccole e non si
stancano mai”. Musicisti e ballerini cardoli sono negli “Emigranti “ di Perri.
I musicisti cardoli punteggiano “Patto col diavolo”, il famoso film aspromontano di Luigi Chiarini,
1949, che più non si vede – la nostra memoria si è accorciata, quasi cancellata.
Il soprannome veniva confuso con un che
di sporco, per l’aspetto dimesso, e anche disordinato, con cui Rocco si presentava.
Che non aveva mestiere e non lavorava - non da bracciante, manovale, uomo di
fatica. Si faceva segnare il minimo di giornate lavorate, 52 da ultimo, per le
quali il lavoratore solitamente si paga lui stesso i contributi sociali, per
poter poi prendere la disoccupazione il resto dell’anno, e per il resto girava
ubiquo per il paese. Aveva fama di essere
sensale, di affarucci e, ma non si saprebbe testimoniarlo, di matrimoni. Sempre però attendibile,
la persona più onesta.
Era anche eccezionalmente urbano e mite –
eccezionalmente per il luogo, che si esprime perentorio e quindi agitato. E
un’estate che si segnò in un cantiere di rimboschimento perché percepiva solida
paga, insieme con i contributi pagati dallo Stato, si fece cantiniere: passava
il pomeriggio per la case, di Pasquale capocantiere, e dei due o tre amici di
Pasquale ospitati nella casa della Forestale, per ritirare le provviste, altre
ne procurava, soprattutto i vajanejji, gli speciali fagiolini
corallo locali di stagione, e
la mattina cucinava in mezz’ora, un’ora il pasto, spazzava e faceva anche un
po’ di conversazione. Ma senza darne segno, non sudava e non si affannava. In
tutte le case bene accolto per il sorriso e la non invadenza, le famiglie volentieri
conversavano con lui e gli affidavano le provviste.
Ritrovato dopo vent’anni, un po’ irrigidito dal
Parkinson. Ma elegantissimo, camicia bicolore, cravatta rosa, scarpe lucidate. Elegante
bastone da passeggio, capelli stirati con la riga. Si sa infine che ha anche
una sorella maggiore, di 104 anni, lucida, autonoma. Le figlie lo accudiscono, dicono il macellaio,
il caffettiere in piazza, il barbiere, dove capita d’incontrarlo mentre
passa una mezz’ora in compagnia - “Ha famiglia,
come no, le figlie sono laureate”. E poi si è saputo che è morto.
Al funerale dicono che sono stati in
pochi, perché Rocco non andava ai funerali – l’uso è che si va ai funeali di chi
è venuto ai vostri funerali, dei congiunti vicini e lontani. Ma che è stata una cerimonia composta, malinconica ma non
triste, in armonia col suo passaggio lieve.
leuzzi@antiit.eu
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