Anche
in chilometri, non s’incontra uno sguardo. In centro, in periferia, nei viali
larghi, nelle viuzze strette, al parco, in piazza nella pausa sulla panchina, e
come dicono i giornali anche sulle strisce pedonali, a rischio della vita.
Teste s’incontrano tutte modestamente all’ingiù. Anche operose, affrettate, ma
tutte piegate, di tre quarti, in avanti – nell’abbigliamento di moda
penitenziale è come una inesauribile processione monacale che si snoda sui marciapiedi,
le strade e gli incroci. Si aspetta il verde al semaforo, il tram alla fermata,
il treno alla stazione, un appuntamento al caffè, e in compagnia ognuno poi inclinato
e assorto, anche al pranzo della domenica e la sera in pizzeria, digitando. È una
magia, un incantamento, e come una parola d’ordine. O come un’ipnosi: si cammina
chini, assorti, sul cellulare. Anche chi sta parlando al microfono e in cuffia sente
il bisogno di procedere chino, come se avesse un secondo cellulare per intanto navigare
– e ce l’ha.
Lo
sguardo che era lo specchio dell’anima ora non esiste più, si vaga in una
tebaide muta e cieca. Gli sguardi che s’incrociavano ed erano forme di
conversazione, sorpresa, ammirazione, rifiuto, sovrappensiero, sono ora
invisibili e si cammina nella folla soli – sarà così anche in Sicilia, dove lo
sguardo era corteggiamento? tutta una letteratura è da rifare.
Chini
si va e muti. I più ascoltando una musica in cuffia, che però non illumina – la
musica illumina. Anche chi parla al cellulare, e alza la voce, ad alcuni piace
farsi ascoltare, sembra afono - come se celebrasse un rito, dicesse una battuta
sul proscenio vuoto, a un pubblico assente: il silenzio della scena prende il
sopravvento. Cioè no, i rumori della città molesti. Che però suonano anch’essi
cavi, come insonorizzati.
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