martedì 6 dicembre 2016

Digitando chini e muti

Anche in chilometri, non s’incontra uno sguardo. In centro, in periferia, nei viali larghi, nelle viuzze strette, al parco, in piazza nella pausa sulla panchina, e come dicono i giornali anche sulle strisce pedonali, a rischio della vita. Teste s’incontrano tutte modestamente all’ingiù. Anche operose, affrettate, ma tutte piegate, di tre quarti, in avanti – nell’abbigliamento di moda penitenziale è come una inesauribile processione monacale che si snoda sui marciapiedi, le strade e gli incroci. Si aspetta il verde al semaforo, il tram alla fermata, il treno alla stazione, un appuntamento al caffè, e in compagnia ognuno poi inclinato e assorto, anche al pranzo della domenica e la sera in pizzeria, digitando. È una magia, un incantamento, e come una parola d’ordine. O come un’ipnosi: si cammina chini, assorti, sul cellulare. Anche chi sta parlando al microfono e in cuffia sente il bisogno di procedere chino, come se avesse un secondo cellulare per intanto navigare – e ce l’ha. 
Lo sguardo che era lo specchio dell’anima ora non esiste più, si vaga in una tebaide muta e cieca. Gli sguardi che s’incrociavano ed erano forme di conversazione, sorpresa, ammirazione, rifiuto, sovrappensiero, sono ora invisibili e si cammina nella folla soli – sarà così anche in Sicilia, dove lo sguardo era corteggiamento? tutta una letteratura è da rifare.
Chini si va e muti. I più ascoltando una musica in cuffia, che però non illumina – la musica illumina. Anche chi parla al cellulare, e alza la voce, ad alcuni piace farsi ascoltare, sembra afono - come se celebrasse un rito, dicesse una battuta sul proscenio vuoto, a un pubblico assente: il silenzio della scena prende il sopravvento. Cioè no, i rumori della città molesti. Che però suonano anch’essi cavi, come insonorizzati.

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