Un divertimento, di avvocato, professore
di diritto a Nagoya, in Giappone: che sarebbe successo se Butterfly si fosse
rivolta a un tribunale, invece di suicidarsi per essere stata abbandonata da
Pinkerton, dopo uno di quei comodi e brutti “matrimoni a tempo” orientali?
Avrebbe vinto la causa: avrebbe ottenuto l’annullamento del secondo matrimonio
del fedifrago, la sua incriminazione per bigamia, e gli alimenti per sé e per
il figlio – il figlio anche lui andava protetto in quanto cittadino giapponese.
L’opera non si sarebbe potuto fare – ma Puccini avrebbe trovato un altro
soggetto.
Si legge col sorriso. Ma una verità
emerge, che ancora fatica, anche dopo l’abbandono dell’etnocentrismo coloniale.
La donna non era tanto priva di diritti a fine Ottocento. In Giappone meno che
altrove, benché si fosse aperto all’Occidente – alla “civiltà”, specie
giuridica – da nemmeno mezzo secolo. Un matrimonio misto non poteva essere
risolto unilateralmente dall’uomo. Neppure da un americano, che
l’extraterritorialità in qualche misura proteggeva. Pinkerton non poteva
ripudiare la moglie. Non poteva nemmeno abbandonarla e rientrarsene impunito
negli States.
Giorgio Fabio Colombo, L’avvocato di madame Butterfly, O barra
O, pp. 67 € 7
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