Al
concerto, allo stadio, alla stazione, a teatro, al cinema, in piazza, sulla
metro tutto è nero. Uomini e donne, anche le giovani: il colorito ha un che di
spento e scuro. La pelle scoperta si copre di tatuaggi, grigi e neri. Sembrano
neri pure i biondi, che ci saranno.
Peggio
se si è qualche centimetro al di sopra della media, in viaggio sui mezzi pubblici,
e specie in metro, che a tutte le ore è sempre piena: si è pressati, sospinti,
aggrediti da una marea nera. Non nera ma uniforme, sui toni del grigio-nero.
Che si vuole anche sformato. E con forme e colori induce un senso di sfatto,
stinto, sporco.
L’abbigliamento
si vuole uniforme, alla maniera cinese di Mao, dei miliardi di uomini
indistinti. Nei colori della penitenza, grigio e nero. Come di un dolorismo
persistente, anche all’apericena e in
birreria. Da un paio di decenni, in coincidenza con la crisi, ma pure da
prima. Al mood di Milano, dell’alta
moda pronta, fino alle catene giovanilistiche a buon mercato, e ai mercatini.
Una
moda che travolge la norma base della moda: la leggerezza, il cambiamento. Un
modo per guadagnare con tessuti e lavorazioni, compresa la colorazione, di poca
qualità. Che capitalizza però sulla disappetenza, sulla perdita del gusto.
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