Scultori fiamminghi tra Sei e Settecento
a Roma, per imparare da Bernini, Algardi e Duquesnoy. Maestri di arte profana,
come aveva spiegato Rubens di ritorno nelle Fiandre, e di arte sacra. Di questa
soprattutto, di cui i fiamminghi, reduci dalle guerre di religione, erano
ghiotti. Anche perché genere di diffusa richiesta, per altari, cappelle, monumenti
votivi, monumenti funebri. Ma col sottinteso che non c’era altro – non c’era
altro che Roma. Per i modelli della nuova arte, e per la qualità dei colori, della luce: c’è la luce di Parigi, ma c’è – c’era,
quando l’Italia esisteva – soprattutto la luce di Roma. Anche per chi, per esempio Hendrik Frans Verburggen, il più
titolato e il più “romano” di tutti, non era mai stato in Italia.
Una mostra più che altro documentaria,
benché ricca di disegni di Bernini, Algardi, Verburggen, e di incisioni di
Rubens, Andrea Pozzo, Domenico Fontana. Ma un segno di rispetto del Belgio, che
la mostra ha voluto e organizzato, verso Roma. Di speciale emozione nel
vilipendio che da troppe parti affligge la capitale – nella più generale
disintegrazione dell’Italia.
Alla
luce di Roma. I disegni scenografici di scultori fiamminghi e il barocco romano, Roma, Istituto
centrale per la Grafica, via della Stamperia
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