Negli anni della guerra vittoriosa, una serie triste di riflessioni sulla “macchinazione illimitata”. È
d’uso leggere i taccuini di Heidegger, i “quaderni neri”, nella politica del
suo tempo, come un diario segreto, e questa presa di distanza colpisce: “La
politica non ha più nulla a che vedere con la πόλις, tanto meno con la moralità
e meno ancora con il «diventare un popolo». Essa, nell’epoca della completa sdivinizzazione,
è la sola adeguata forma fondamentale di possente riunione di tutti gli strumenti
di potere della violenza”. Subito dopo aver annotato che “combattenti – sono, da una parte, coloro che hanno sempre bisogno
di un avversario e che, nel caso che questo manchi, se lo inventano e lo
spacciano a se stessi e ad altri come tale; senza un avversario essi si
paralizzano nella confusione….”. Oppure, “d’altra parte, essi sono quelli che
stanno solo in ciò per cui lottano” e
se hanno avversari “li rendono dipendenti e cioè a loro volta privi di
obiettivi”. L’argomentazione caratteristica: niente e nessuno si salva.
Per il resto un linguaggio più elusivo
del solito – di cui Alessandra Iadicicco consolante sembra possedere la chiave,
nella nota introduttiva sui criteri della traduzione, ma il lettore, anche
benevolente, fatica a non smarrirsi. In queste annotazioni occasionali più che
nelle lezioni, nei saggi, nelle monografie.
Anche perché i “Quaderni” sono stati “venduti” male: non sono note di
diario, personali, occasionali, ma testi strutturati, con rimandi, interni ed
esterni al testo - con indici tematici compilati da Heidegger stesso. Ma
preciso, ripetuto ogni paio di pagine, insistente, nell’elusività: l’attesa
dell’Essere, l’ineffabile – “il tacere conquista l’Essere”. Eversivo, perfino, in omaggio all’Essere: “La guerra è
il primo esempio, da manuale, della macchinazione incondizionata e dei suoi
allestimenti e ammaestramenti”. Ma patetico, e quasi ridicolo. “L’ordine incondizionato della potenza
illimitata nella forma dell’allestimento che tutto afferra di ogni possibilità
di potenziamento della potenza è già in sé il definitivo disturbo in ciò che è
senza scampo”: questo del quaderno XII, p. 64, e analoghi editti sconcertano, pur
facendo la tara della traduzione necessariamente affrettata. Irritato è Heidegger
da solo con se stesso perché non riconosciuto. Aggrappato a Hölderlin, il poeta
che avrebbe dovuto essere – uno svevo anche lui (svevo e non alemanno, qui c’è
il rifiuto dell’alemannità).
La polemica è costante con Nietzsche,
ultimo metafisico, ogni poche pagine: “Nietzsche è la fondazione dell’ultima epoca della
modernità: noi la chiamiamo l’epoca della
totale mancanza di senso” (p. 119). Da ultimo sulla sua presunta apertura ai
presocratici: “La favola che Nietzsche avrebbe riscoperto la «filosofia
pre-platonica » verrà ora alla luce nella sua favolosità”, dopo il suo “Nietzsche”,
di Heidegger – con l’annotazione a margine: “Nietzsche è l’ultimo pensatore che
si è sacrificato per il «platonismo»”. In tono minore anche con Jünger –
l’unico scrittore suo contemporaneo che legge, forse, seppure per criticarlo. Contro
l’utilitarismo, o pragmatismo. Al quale ascrive Descartes, che nella
dimostrazione del “Dio dell’esistenza”, attenendosi al “suo nuovo principio della
clara et distincta perceptio, la fede
in Dio lega a “qualcosa di necessario e utile” – e così Pascal: “Pascal non è in
alcun modo una figura che si contrappone a Descartes, bensì e solo il suo
completamento esplicito”. Molte le pagine contro lo storicismo, la storiografia
in genere. E contro la “filosofia tedesca”. Che infine dice stizzito “francese”,
cioè “propagandisticamente «nazionalistica»”, mentre “abbandona tutto ciò che è
tedesco, la meditazione e il rischio dell’essenziale”. Da Herder a Hegel, Kant
unico escluso, e l’idealismo in genere. Una nemesi estesa alla linguistica: “Non
può essere certo un caso se entrambi i pensatori che compiono la metafisica
occidentale – Hegel e Nietzsche – decadono nella più superficiale concezione
del linguaggio e nella più vuota interpretazione”. Contro la riduzione, naturalmente,
che la metafisica e la tecnica (l’americanismo) fanno dell’Essere all’ente, all’ananke, si direbbe, e al “tempo libero”.
Con dispiego di trombe e tamburi – l’opinione pubblica.
Anti-ebraico sempre: per riferimenti minimi,
occasionali, ma la questione dell’ebraismo emerge costante. Anche se la esclude
dagli indici tematici - o di più per questo. Ma senza antisemitismo: Heidegger è
vivamente contro il razzismo biologico. Altrettanto vivamente è per la
differenza basica culturale. Dirla storica o psicologica no, lo offenderebbe:
storia – storiografia – e psicologia mette anch’esse con costanza all’indice, e
anche cultura, ma insomma qualcosa gli ebrei sono, non gli sono indifferenti. L’ebraismo
è l’alterità totale – ha perfino “l’ebreo «Freud»", come se il Doktor viennese
fosse un simulacro. Una “razza”, seppure tra virgolette, soggetto oppure vittima
della Macchinazione, non a caso: Heidegger la esclude dalla comprensione del proprio
limite.
Niente di invasivo o militante, anzi l’ebreo
rischia poco nell’incupimento generale. “L’uomo occidentale” è senza più luogo
né status: “La desertificazione entro le sfere della «formazione» e dell’«impresa
culturale» è più avanzata che nel campo della più rozza preoccupazione per i
bisogni vitali”. È un Heidegger incattivito, in questi quaderni degli anni della
vittoria. Nell’ultimo, dell’attacco orgoglioso alla grande Russia, ha perfino un
elenco di punti deboli della guerra vittoriosa (pp.338-9). Si legge in questi
anni di entusiasmo isolato, non riconosciuto. Al centro del quaderno XIV (p.
255) si compiange senza ritegno: “Lentamente, riesce tuttavia ancora di far
scomparire il nome «Heidegger» dalla pubblicità, e riescono i tentativi di
avvolgere per bene nell’oblio ciò che reca quel nome come suo autore. È anche a
malapena possibile sapere, entro un certo tempo, quand’è che sia tempo. Forse
nell’anno 2327?” Che non è negativo come sembra, è dirsi
la propria la filosofia immortale. “Con la nostalgia ineliminabile del divino –
dell’Essere – “contro l’illimitato predominio dell’ente nella sua
Macchinazione”.
Con qualche sorpresa politica. “La
guerra è orribile” apre il 1940. Un’articolata, coerente ma non ostile,
“Lettera sul comunismo” è il § 128 del quaderno XIII. Seguita da un incongruo
parallelo Hölderlin (l’amato)-Lenin – non c’è Hitler, per inciso, c’è molto
Lenin. C’è anche un’autocritica del 1933 e il rettorato (p.233): “Negli anni
della possibile decisione (1933) si agì con orrore e si stette in disparte e si
sobillò; dopo un breve periodo si venne usati, ci si vide confermati e si fu
soddisfatti e si ingoiò tutto….E adesso si recita la parte degli ammonitori e
dei salvatori – là dove si portano le proprie colpe”.
Con qualche pointe leggera, da scrittore in campo. Contro il “letterato
esistenziale”, tutto “spirito” e “valori supremi”, “che naturalmente legge
«Hölderlin» e «Nietzsche», tiene in considerazione Spengler e Jünger, conosce
Rilke e avverte inclinazioni romantiche verso la chiesa cattolica, rende attuale
Pascal e non dimentica l’elemento popolare”. Hölderlin è la sola consolazione,
quasi un alter ego. A proposito degli inni che Hölderlin aveva messo in ordine
ma non pubblicato, una pagina spiega il “lascito” come lo intende Heidegger:
“Il «lascito» si svela come ciò che è ampiamente venuto per primo”, zampillato come sorgente - intuizione, illuminazione.
Il messaggio si presenta umile - è tutto
nella posizione: “Noi restiamo ovunque solo nel preludio dell’inizio”. O forse
no, il messianico non è modesto: “Solo alcuni singoli e solo coloro che sono nascosti
ai loro «tempi» sono capaci di chiamare una volta il Dio e di aspettare quello
che deve venire”.
Martin Heidegger, Riflessioni XII-XV, Bompiani, pp. XI-371 € 25
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