Paterson
è il nome del protagonista, un giovane che scrive versi e guida l’autobus
urbano. Della città nel New Jersey dove Paterson vive, sotto le Paterson Falls,
le cascate del fiume Cassaic che ispirano alcune poesie. E del poema “Paterson”
di Williams Carlos Williams, cittadino eminente, cantore di “Libertad!
Igualdad! Fraternidad!”, nonché medico di lungo corso a Rutherford, non
distante. Ma chi vede il film non se ne accorge, talmente fluisce armonioso, a
ogni scena vivo. Tra un’improvvisazione e l’altra del poeta autista - l’attore
che lo impersona si chiama Driver, autista, Adam Driver - nella routine alla guida dell’ingombrante
mezzo pubblico, la mattina a colazione solo, e mentre attende sul mezzo
il suo turno di servizio – qualche volta sotto le cascate. Di una vita che si
ripete ogni giorno ordinaria, stessi percorsi, stessi incontri, stessi dialoghi
perfino, senza nemmeno trovate scenografiche, fotografato in campo stretto, e
tuttavia avvolgente: un film che non può non immedesimare lo spettatore (anche
per i molti tributi all’Italia) – solo la giuria di Cannes vi è rimasta immune,
ma lì è business.
Molto costruito evidentemente, benché non a chiave né artificioso:
opera postmoderna, di citazioni, che lo spettatore non è tenuto a sapere, la
citazione è un valore aggiunto. I versi di Paterson-autista sono del poeta
newyorchese Ron Padgett, ma suonano calchi di Williams. Con richiamo titubante a David Foster Wallace: nel seminterrato di casa dove Paterson fa il poeta sono in vista “Infinite Jest” e la raccolta di saggi “Considera l’aragosta”. L’idea del film è
quella del poema: la vita della città come la vita di un uomo. Il respiro, i
sentimenti, le vibrazioni dell’una sono quelle dell’altro, e viceversa. Il
soggetto stesso nasce da un verso del poema di Williams: “Dentro il bus se ne
vedono\ i pensieri seduti o in piedi”. Il Driver è una sorta di specchio nel quale
prende corpo la città.
E Williams non è nessuno: “Paterson” è venuto elaborando, in
almeno tre laboriosi rifacimenti, come la Dublino di Joyce nell’“Ulisse”. Con un
occhio a T.S.Eliot, “The Waste Land”, che non amava. E a Pound, di cui fu
complice, ai “Cantos”. Come Pound aperto alla saggezza piana di Confucio, e
alla semplicità zen. Che il Paterson-autista riflette. Ma noi non lo sappiamo,
non ne siamo imboniti.
Jim Jarmush, Paterson
Non sappiamo
neanche la storia vera di Paterson. Che fu voluta, a 15 miglia da Manhattan, da
William Hamilton per sfruttare l’acqua delle cascate e avviare la rivoluzione
industriale che avrebbe fatto ricca l’America – prese il nome dall’allora
governatore del New Jersey, che collaborava con Hamilton. E oggi Hamilton, il
padre della costituzione con il suo “The Federalist”, non ha buona stampa,
visto come una sorta di Trump eponimo. Primo segretario al Tesoro, creò la Bank
of the United States, progenitrice della Federal Reserve, ma allora il primo e
più solido passo centralista del nuovo Stato. Che garantì molti profittatori di
regime, della guerra d’indipendenza e dopo, a spese del nascente debito
pubblico. Fautore di leggi restrittive dell’immigrazione, e di una politica
aggressiva verso il Messico e l’America Latina. Il progetto hamiltoniano di
fare della città la pietra di fondazione dell’America scontrandosi oggi con gli
effetti della crisi, qui particolarmente grave: la disoccupazione è al 30 per
cento, alcuni suoi quartieri sono reputati “il più grande mercato dell’eroina”,
al di fuori della provincia di Helmand in Afghanistan.
Per lo spettatore Paterson è solo la città di Pinotto, quello di Gianni e
Pinotto: ha una statua a suo nome, e anche un parco pubblico, osserva
arguto il vecchio barista, e chi altri al mondo ha un parco, oltre alla statua?
Forse è l’effetto della poesia, come già nell’“Attimo fuggente”: c’è una
maniera della poesia di essere poetica al cinema, semplice. Un miracolo.
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