Il critico non è più poeta, e il poeta
non sa più spiegarsi. Perché le due funzioni, “nel processo di secolarizzazione
della tradizione religiosa” hanno perduto “ogni memoria del rapporto che li
legava in modi così intimi”, nella tradizione.
Un’altra piega del filosofo nella sua riformulazione
del sacro. Una serie di pieghe, raccolte sotto la riflessione più lunga. Le -
non “la” - nudità del titolo sono quelle della performance di Vanessa Beecroft
alla Neue Nationalgalerie di Berlino l’8 aprile 2005, replicata a Londra, alla
Gagosian Gallery, a Venezia al Guggenheim, e a Genova a palazzo Ducale, in cu
un centinaio di donne nude (giovani), in realtà rivestiste di collant
trasparenti, stavano immobili, in piedi o accosciate ma indifferenti (senza
sguardo), tra i visitatori – intimiditi. Di questa nudità in sé fredda Agamben ritraccia
la teologia con Erik Peterson, e da sant’Agostino a un Sartre agostiniano,
“forse inconsciamente”, fino a Helmut Newton, “They are coming”, a una serie di
fotoromanzi sadomaso, alla tradizione cristiana orientale, alla mistica. Non
sembra, ma l’argomento è controverso – il nudo non è “nudo”, etc.
La teologia del nudo è assortita di brevi
considerazioni sulla teologia, da tempo desueta, del “corpo glorioso”. Quello
dei beati in paradiso dopo la resurrezione. Qui ci sono più certezze, ma di di
immaginazione. I beati sono trentenni, cioè dell’età del Cristo resuscitato (circa triginta annos secondo san
Tommaso). Sono maschi e femmine, ancora distinti cioè, senza unisex e senza multi
gender. Ma pur sempre con qualche problema. Con tutti i sensi? E il figlio
dell’antropofago? E i “quattro caratteri” che si assegnano ai corpi dei
resuscitati: impassibilità, agilità, sottigliezza, chiarezza? Davvero, non
sappiamo che farcene del corpo.
Attorno a questi due saggi, propedeutici
al successivo “L’uso dei corpi” (“Homo Sacer” IV, 2), ultimo volet della riflessione centrale di Agamben,
una serie di spunti. La festa, che il filosofo sente come l’uomo della strada: perduta.
Così come del resto il suo opposto, sacrificale, la penitenza. Che oggi si
resuscitano come rigurgiti morbosi, bulimia e anoressia. E Venezia
rappresentata come città spettro, invece che città morta: “La spettralità è una
forma di vita”. Ricorrendo all’immagine di Ingeborg Bachmann, che la lingua
compara a una città, col centro, le periferie, le piazze, i vicoli, “abitare a
Venezia” il veneziano Agamben dice “come studiare il latino”. Venezia è anche “l’emblema
della modernità”, larvale: “La nostra epoca non è nuova, ma novissima, cioè ultima e larvale”.
Con qualche agudeza. L’intepretazione – l’ermeneutica – come un moderno
profetismo – “la profezia non può più esercitarsi che sotto la forma dell’interpretazione”.
Con Nietzsche, la contemporaneità è una singolare relazione col proprio tempo,
al quale si aderisce prendendo le distanze; è precisamente la relazione al tempo che gli aderisce con lo sfasamento e l’anacronismo”.
Quelli che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che convengono
perfettamente con essa su tutti i punti, non sono contemporanei”. O anche: il contemporaneo è “quello che vede
le tenebre del presente”.
La nota finale, “L’ultimo capitolo della
storia del mondo”, argomenta l’ignoranza, di cui auspica una epistemologia,
paradigma della scienza. Brillante:
“Ci sono dei modi riusciti dell’ignoranza di sé e la bellezza ne fa parte”. Il
penultimo, “Una fame da bue”, l’inoperosità fa paradigma dell’azione.
La raccolta è anche un bilancio. Nella nota editoriale si spiega come “una
scrittura che ha bruciato tutte le sue carte di identità ed è, insieme,
filosofia e letteratura, divagazione e scheda filologica, trattato di
metafisica e nota di costume”. E questa scrittura si inquadra in una
specialissima nozione di politica, “intesa come una soglia in cui teoria e
prassi, arcaico e contemporaneo coincidono senza residui”.
Con alcune
folgorazioni. Nell’islam, come nel cristianesimo, l’opera di Dio è duplice: la
creazione e la salvezza. È l’intima contraddizione delle religioni monoteistiche,
tra il Dio creatore e il salvatore. Le due opere sono distinte e opposte.
Tuttavia interconnesse. E anzi vicendevolmente propedeutiche, l’una all’altra. Ma la salvezza è superiore alla creazione nella
tradizione islamica: è l’opera della giustizia. E del resto così è di fatto, se
non in dottrina, nel cristianesimo. E si arriva ala meraviglia che “sia a una
creatura che è confidata la redenzione del creato”.
O la
rilettura di Kafka. Spalancando lo spiraglio che Davide Stimilli ha aperto, che
K. sta per la figura latina, del diritto romano, del Kalumniator. Alla quale sarebbe arrivato studiando il diritto
romano quando si preparava ala professione di procuratore legale. K. anche naturalmente
come Kafka, ma soprattutto come calunnia, delitto imperdonabile, come
autocalunnia. Nel “Processo” che è già una condanna, come il cappellano spiega:
“Il processo si trasforma a poco a poco in verdetto”. E lo zio conferma: “Ritrovarsi
in una tale causa, significa che la si è già perduta”.
L’autocalunnia,
l’autoaccusa, “accusarsi a torto”, infirma la base del processo, l’accusa, e
per questo vuole una condanna severa. Agamben ricorda che la confessione non è
gradita in letteratura, da Cicerone a Proust – non lo era, ora va molto. Anche
perché è passata in troppe occasioni, dai processi per stregoneria e quelli di
Stalin, per la tortura – più spesso per il lavaggio del cervello. La
confessione insincera o irreale è peggio.
Una
rilettura radicale, con rinvii convincenti al “Processo” e al “Castello”. L’agrimensore
K. viene probabilmente dal latino kardo,
“quello che si dirige verso il cardine del cielo”. L’agrimensura era una professione
importante a Roma, in quando delimitava le città e i confini. La prima raccolta
di testi sull’agrimensura precede di un secolo il codice di Giustiniano. “La
scelta di questa professione (che K. decide lui stesso di attribuirsi, nessuno
l’ha impegnato per questo lavoro, di cui il sindaco gli fa rimarcare che il villaggio
non ha bisogno)”, Agamben fa insieme “una dichiarazione di guerra e una
strategia”. Per una nuova Cabbala, un altro dialogo con Dio: “Non si tratta
dunque, non dispiaccia agli interpreti teologici, che siano ebrei o cristiani,
di un conflitto col divino”.
Giorgio Agamben,
Nudità, Nottetempo, pp. 168, ill., €
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